Le regioni artiche ricoperte dal permafrost emettono oggi più carbonio in atmosfera di quanto ne riescano ad assorbire: lo rivela la stima più capillare delle emissioni dannose compiuta nell’Artico. In base alla ricerca, pubblicata su Global Biogeochemical Cycles, la fusione accelerata del permafrost dovuta ai cambiamenti climatici sta trasformando vaste zone di Siberia, Canada, Alaska e Groenlandia in fonti, anziché serbatoi, di gas serra, che potrebbero contribuire alla crisi climatica in modi che non avevamo ancora calcolato.
Gelo (quasi) per sempre. Il permafrost o “permagelo” è un terreno permanentemente ghiacciato che si trova tra Nord Europa, America Settentrionale e Siberia e che ricopre circa 22,8 milioni di chilometri quadrati nell’emisfero settentrionale. Si può formare sulla terra o sui fondali oceanici, nelle aree in cui le temperature rimangono costantemente sotto lo zero, e può avere uno spessore variabile da 1 a 1.000 metri. Il suo strato più superficiale è sensibile ai cambiamenti del clima: negli ultimi cinquant’anni, con l’aumento delle temperature, l’area interessata dal permafrost si è ridotta del 7%.
Emesso e assorbito. Per via del materiale organico di millenni di storia terrestre conservato nel terreno permanentemente ghiacciato, il permafrost è tradizionalmente considerato un serbatoio di carbonio: si pensa che oltre un terzo del carbonio della Terra si trovi bloccato nel permafrost artico. Tuttavia la fusione del permafrost, riportando alla luce la materia organica, libera in atmosfera ingenti quantità di carbonio, tanto che negli ultimi anni diversi studi hanno ipotizzato che le regioni coperte da permafrost fossero diventate emettitrici di CO2 e metano. Allo stesso tempo, però, la maggiore crescita di vegetazione estiva nelle aree ora libere dal permafrost può assorbire più CO2 dall’atmosfera, un servizio da mettere sull’altro piatto della bilancia.
Analisi sul campo. Nel nuovo studio guidato da Justine Ramage, geografa specializzata in ambienti polari del Nordregio research institute di Stoccolma (Svezia), gli scienziati hanno scelto di affidarsi non a osservazioni satellitari della regione artica o al machine learning, bensì alle rilevazioni di emissioni al livello del suolo pazientemente raccolte in 200 siti disseminati in tutta la regione ricoperta da permafrost, tra Scandinavia, Russia, Alaska e Canada, confrontate con quelle di aree con livelli simili di vegetazione e umidità.
Bilancio negativo. In questo modo è stato dimostrato che la zona di terreno permanentemente ghiacciata del grande Nord è oggi emettitrice di carbonio, con 144 milioni di tonnellate di carbonio all’anno prodotte tra 2000 e 2020.
Il calcolo comprende le emissioni di CO2 e di metano, ma il permafrost immette in atmosfera anche 3 milioni di tonnellate all’anno di azoto (soprattutto ossido di azoto), un altro potente gas serra.
Le aree ricoperte da vegetazione nelle regioni del permafrost sono prevalentemente pozzi di carbonio, ma la loro influenza positiva sul clima è controbilanciata dalla rapida espansione di laghi termocarsici, formati dall’acqua di disgelo proveniente dal permafrost. Questi laghi sono fonti di emissioni, così come lo sono gli incendi forestali che sempre più spesso interessano la tundra. Entrambi questi elementi non erano stati presi in considerazione negli studi precedenti.
Peggio del previsto. L’evoluzione del permafrost da serbatoio a fonte di carbonio è purtroppo destinata ad accelerare il circolo vizioso del climate change. E le stime della quantità di carbonio liberata sembrerebbero ancora al ribasso, perché è molto difficile calcolare i gas serra emessi da collassi improvvisi di grosse porzioni di permafrost, eventi sempre più probabili nell’era della crisi climatica.
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