Capitalismo, istruzioni per l’uso di un sistema in crisi permanente

Scrive Keynes in apertura del ventiquattresimo ed ultimo capitolo della Teoria generale che «I difetti economici più evidenti della società in cui viviamo sono l’incapacità di assicurare la piena occupazione e la sua arbitraria e iniqua distribuzione della ricchezza e dei redditi». Nel suo ultimo libro – Ricchi e poveri. Storia della diseguaglianza (Einaudi, pp. 168, euro 15), Pierluigi Ciocca si sofferma sul secondo dei due aspetti, tracciando con efficaci pennellate una sintetica storia delle diseguaglianze tra e nei paesi del mondo attraverso i secoli e i diversi modelli di produzione e di società. Tale percorso non ha seguito sempre …

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Keynes oggi chiederebbe più investimenti, non regalie. Un libro di Giorgio La Malfa

Il grande economista britannico è diventato un simbolo della spesa pubblica. Ma il suo focus non erano i bonus o il debito improduttivo. Un po’ di motivi per recuperarne il pensiero

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Discutere di Keynes è discutere del potere delle idee. Su questo il grande economista, ma anche grande intellettuale e filosofo, non aveva dubbi. Scriveva Keynes nella pagina finale della Teoria generale: “Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, giuste o sbagliate che siano, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo ne è in gran parte governato”. E quelle di Keynes hanno segnato un’epoca, come illustra Giorgio La Malfa nel suo nuovo libro, Keynes l’eretico. L’eresia di Keynes deriva dal suo essere riuscito con la Teoria generale a espugnare la cittadella dell’ortodossia economica prevalente al tempo, quella che riteneva che “nel lungo periodo, il sistema economico in cui viviamo si autoregoli, anche se con scricchiolii, gemiti e sussulti”, e porti quindi alla piena occupazione. Gli eretici erano convinti invece che bastasse “una normale capacità di osservazione per dimostrare che i fatti non corrispondono al ragionamento ortodosso” – ossia che il mercato, da solo, non produce piena occupazione: una visione sicuramente segnata dalla grande depressione del 1929. Mancava tuttavia un impianto teorico a sostenere questa scuola di pensiero, ed è quello che Keynes riuscirà a costruire con la Teoria generale del 1936.   

Dopo aver dominato il pensiero economico nel trentennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, a partire dagli anni Settanta il pendolo dell’economia è tornato indietro. La rivoluzione keynesiana è stata superata dalla controrivoluzione monetarista, dall’idea che il mercato funziona sempre e comunque meglio dello stato, e dunque è meglio lasciarlo libero di funzionare. 

Questa illusione è durata fino alla crisi finanziaria del 2008, e da allora, e in misura ancora più evidente dopo la pandemia, abbiamo assistito a una nuova oscillazione del pendolo e alla riscoperta del pensiero di Keynes.  Nel 2008, Robert Lucas, il padre della Nuova macroeconomia classica, dovette ammettere – facendo riferimento al celebre “siamo tutti keynesiani oggi” di Milton Friedman quarant’anni prima – “siamo tutti keynesiani in trincea”. Non è un caso se negli ultimi anni sono uscite diverse opere dedicate a Keynes. Lo stesso Robert Skidelsky, autore di una celebre biografia in tre volumi di Keynes, nel 2010 ha pubblicato un libro intitolato “The return of the master”.   

La Malfa porta i programmi di spesa pubblica in deficit negli Stati Uniti, la sospensione in Europa del Patto di stabilità e crescita e la svolta del piano NextGenerationEU a riprova della rinnovata centralità delle politiche keynesiane in seguito alla pandemia. In questo c’è del vero, anche se per quanto riguarda NextGenerationEU e i Pnrr l’obiettivo non è tanto far ripartire la domanda, quanto innescare una trasformazione strutturale del nostro modello di sviluppo economico, accelerando la transizione verde e quella digitale e mitigando le conseguenze sul piano sociale delle sfide in corso. 

Posto che la crisi finanziaria prima e la pandemia poi hanno ribadito l’attualità del pensiero di Keynes, la domanda è in che misura questo pensiero è di attualità oggi, quando l’economia europea è colpita da uno shock dal lato dell’offerta, che dà luogo ad un rallentamento della crescita insieme a un livello di inflazione elevato. Il ragionamento keynesiano era basato sulla premessa dell’inflazione spinta dalla domanda, come oggi accade negli Stati Uniti. I keynesiani rimasero spiazzati dallo shock dell’offerta degli anni Settanta e dalla stagflazione che ne conseguì, e questo fu uno dei motivi che portò all’accantonamento del pensiero keynesiano.  Il pensiero di Keynes è di nuovo irrilevante oggi? No, ci sono alcuni punti nell’opera di Keynes che sono particolarmente d’attualità e offrono una chiave di lettura delle sfide attuali per la politica economica: su tutti quello degli investimenti.

Sul ricorso alla spesa pubblica il pensiero di Keynes è stato spesso frainteso. Keynes riteneva che occorresse distinguere fra spese correnti e spese di investimento: il bilancio pubblico “dovrebbe essere sempre in pareggio. E’ la spesa in conto capitale che dovrebbe fluttuare in relazione alle condizioni dell’occupazione”.   Una vera politica keynesiana è dunque una politica di investimenti, non una politica di regalie.  Scriveva inoltre Keynes: “Così come durante la crisi era opportuno che il governo si indebitasse, ora è opportuno che imbocchi la strada opposta… Per il Tesoro è il boom, non la crisi, il momento giusto per l’austerità”. In questa visione, la spesa pubblica è un mezzo per garantire la funzione anticiclica dell’intervento pubblico. Creare il margine di manovra in fasi di crescita è condizione per essere poi liberi di spingere l’economia in periodi di recessione.  Questo insegnamento è più che mai d’attualità. Uno degli obiettivi della riforma della governance economica proposta dalla Commissione europea è proprio quello di rendere il quadro di regole fiscali più anticiclico, favorendo al contempo gli investimenti nelle transizioni ecologica e digitale, nella sicurezza energetica. 

La Commissione non propone una golden rule per gli investimenti, vale a dire quella separazione del trattamento della spesa corrente e della spesa in investimento caldeggiata da Keynes. Il motivo è duplice. In primo luogo, Keynes ragionava in termini di investimenti materiali, mentre oggi assume sempre più importanza la componente di investimenti immateriali. In questa prospettiva più ampia, una golden rule per gli investimenti avrebbe per effetto quello di escludere una fetta importante della spesa pubblica. C’è poi una questione di azzardo morale, per cui una golden rule rischierebbe di innescare una corsa a far rientrare tra gli investimenti anche spese che non lo sono. 

Gli investimenti privati necessitano poi di un ambiente economico stabile. Da qui l’importanza della distinzione tra rischio e incertezza, che Keynes sviluppa nel Trattato sulla probabilità: il primo calcolabile in termini probabilistici, la seconda no.  La nostra è un’epoca segnata da un’incertezza senza precedenti. In questo contesto, rilanciare gli investimenti, sia pubblici che privati, deve essere uno dei pilastri della strategia europea. NextGenerationEU è stato decisivo proprio perché ha cambiato le aspettative. Questo ha contribuito alla stabilizzazione dei mercati ed è stato il primo passo verso la ripresa. Oggi occorrono nuove soluzioni a livello europeo che possano ridurre l’incertezza.

Ma è forse nell’impegno di Keynes per un nuovo ordine mondiale il contributo più rilevante per guidarci nell’affrontare le sfide del presente. Ricordiamo il grandissimo lavoro che Keynes fece a Bretton Woods, a guerra ancora in corso, per ricostruire un ordine mondiale più simmetrico e sostenibile (un lavoro per cui peraltro si spese moltissimo anche fisicamente, e che ne minò la salute).  E’ il compito che sta davanti a noi adesso, a guerra anche stavolta in corso. Allora come oggi per far affermare la democrazia liberale. Il terzo volume della biografia di Skidelsky si intitola Fighting for Freedom.

Keynes aveva in mente un nuovo sistema mondiale che tendeva a preservare il ruolo della Gran Bretagna. Non a caso il terzo volume di Skidelsky nell’edizione inglese si intitola Fighting for Britain. Il tentativo di preservare il ruolo della Gran Bretagna è oggi il tentativo di preservare il ruolo dell’Europa – sperando di ottenere risultati migliori – per cui oggi forse Keynes direbbe “Fighting for Europe”.  La questione dell’aggiustamento simmetrico dell’ordine mondiale è rilevante oggi, con l’ascesa della Cina che non si assume le responsabilità che incombono ad una grande potenza e il rischio di una spirale protezionistica alimentata dall’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti. L’“autonomia strategica aperta” è la bussola dell’Europa per sostenere la competizione tecnologica, rafforzare la sicurezza ed evitare dinamiche globali con giochi a somma zero, se non negativa. 

Si possono raggiungere questi obiettivi rafforzando al contempo la democrazia liberale? Si deve. Nell’utilissima cronologia, che conclude il libro di La Malfa, troviamo infine l’estratto di un’intervista al “New Statesman” nel gennaio del 1939, in cui a Keynes viene chiesto se il successo degli Stati totalitari nel far funzionare le loro economie non dimostri il fallimento delle democrazie nel risolvere i problemi economici di fondo delle società. A questa domanda Keynes oppone la sua ricetta per un “socialismo liberale”, inteso come “un sistema in cui possiamo agire come collettività organizzata per fini comuni e per promuovere la giustizia sociale ed economica, rispettando e proteggendo, nello stesso tempo, l’individuo”.

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