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Vulcano a Tonga: ecco che cosa è successo

Il 15 gennaio 2022 il vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai ha devastato l’arcipelago di Tonga. L’eruzione ha innescato uno tsunami che si è spinto fino ai Caraibi e ha generato onde nell’atmosfera che hanno viaggiato per più volte attorno al nostro pianeta.
Successivamente parte del materiale che era stato espulso ha raggiunto una quota di circa 58 chilometri, superando tutte le emissioni note negli ultimi secoli. Dopo questa eruzione, i geologi di tutto il mondo si sono chiesti quali potessero essere state le cause di un simile evento. Iniziano ad arrivare le risposte. Uno studio che è riuscito a spiegare perché l’eruzione è stata così violenta è stato infatti pubblicato sulla rivista Earthquake Research Advance da Melissa Scruggs dell’UC Santa Barbara e da alcuni alcuni collaboratori.

Il giorno prima… Le conclusioni di questa ricerca suggeriscono che le cause della eccezionale violenza dell’eruzione sono da ricercare in un fenomeno avvenuto il giorno prima. Il 14 gennaio 2022, infatti, si verificò una eruzione sottomarina, che non fu particolarmente violenta, ma che fece collassare la bocca del vulcano che si trovava sotto la superficie dell’oceano. Ciò ha consentito all’acqua il mare di entrare a contatto con il magma che era molto vicino alla superficie.
L’enorme quantità d’acqua che si è trasformata in vapore ha contribuito ad aumentare la violenza dell’eruzione del 15 gennaio. «È stata sicuramente la più grande eruzione avvenuta dopo quella del Monte Pinatubo, Filippine, del 1991», ha spiegato Scruggs: «questa potrebbe essere stata ancor più violenta e forse è paragonabile all’eruzione del Krakatoa del 1883, la cui esplosione fu sentita a quasi 5.000 chilometri di distanza.»

Nel disegno a) si osserva la linea di contatto tra la Placca del Pacifico (a destra) e la Placca Indo-Australiana (o semplicemente Australiana). La prima affonda sotto la seconda e fondendosi genera magmi che originano vulcani esplosivi come il Tonga. Nel disegno b) si vede la sezione della crosta terrestre e si può osservare come la Placca del Pacifico si incunea sotto la Placca Australiana. Le stelline gialle indicano i terremoti che si verificano in quella zona. Andando in profondità, la placca si riscalda e origina i magmi che salgono verso l’alto. Il disegno c) mostra le stesse caratteristiche del disegno b), ma indicando in blu le aree più fredde e in giallo-rosso le più calde.
© David A.Yuen, Melissa A.Scruggs e altri

Sulla linea. Il vulcano Tonga è uno dei tanti vulcani che si trovano lungo il Tofua Volcanic Arc, che è la linea immaginaria che separa la placca dell’Oceano Pacifico con quella Indo-australiana. Le isole Hunga Tonga e Hunga Ha’apai, che c’erano prima dell’esplosione del 15 gennaio, erano semplicemente due punti della caldera del vulcano che emergevano dal mare. Oggi, dopo l’ultima eruzione, non esistono più. «L’ultima isola comparsa nell’oceano», spiega Scruggs, «è emersa dal mare nel 2015, ma oggi non esiste più. Se non fossimo stati nell’era satellitare è molto probabile che nessuno avrebbe mai visto quell’isola.»

Cronologia. La ricerca ha permesso anche di determinare con precisione l’evolversi dei fatti del 15 gennaio: l’evento è iniziato alle 05:02 ora italiana, con una serie di terremoti, durati per circa 13 minuti, attorno al vulcano. L’eruzione è stata particolarmente violenta durante le prime due ore per poi svanire nell’arco di 12 ore. Il vulcano aveva già eruttato nel 2019, nel 2015 e nel 2014, ma non aveva mai raggiunto la violenza dell’ultima eruzione. 
C’è da lavorare. Gli autori dello studio hanno stabilito che il 15 gennaio vennero messi in atmosfera circa 1,9 chilometri cubi di materiale. «Ma ciò che è impressionante non è la quantità di materiale emesso, che rispetto ad altre eruzioni non è particolarmente elevato, ma la violenza con la quale è stato eruttato. E questo è stato provocato dalla miscelazione dell’acqua oceanica con il magma presente nella camera magmatica», ha sottolineato la vulcanologa. Il gruppo di ricercatori sottoline quanto lavoro ci sia ancora da fare per studiare e tenere sotto controllo le migliaia di vulcani sottomarini sparsi in tutti gli oceani, di cui si conosce ancora pochissimo.

La super onda d’urto dell’eruzione a Tonga

Per la violenza dell’esplosione, per lo tsunami prodotto, per la quota raggiunta dalle ceneri e non ultimo per il boato che ha prodotto – che ancora adesso è in fase di studio – l’eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga-Hunga Haʻapai, avvenuta il 15 gennaio scorso, non smette di stupire. L’ultimo “record”, se così si può definire, riguarda l’onda atmosferica generata dall’eruzione che ha interessato più volte tutto il Pianeta e che è stata studiata da vari ricercatori in giro per il mondo, da quelli italiani dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia agli spagnoli dell’Institute for Advanced Studies di Maiorca, in Spagna. 
Questi ultimi, guidati da Ángel Amores, un oceanografo, hanno analizzato i dati raccolti da diversi osservatori e hanno così confermato che l’onda atmosferica ha impiegato 36 ore per circumnavigare il globo, diffondendosi ad anelli concentrici dal vulcano, viaggiando alla velocità del suono. La loro analisi è stata pubblicata sulla rivista Geophysical Research Letters.

Una, due… tre volte. Amores stava controllando i dati delle stazioni meteorologiche locali da casa quando ha visto l’arrivo dell’onda d’urto nel momento in cui ha fatto il suo primo passaggio su Maiorca, circa 15 ore dopo l’eruzione. «Quindi mi sono messo in attesa perché, mi sono detto, ci sarebbero volute circa 36 ore per vederla tornare. E dopo 36 ore è effettivamente passata. In realtà non mi aspettavo di osservarla per la terza volta ed invece è successo, dopo altre 36 ore. È la prima volta che vedo qualcosa del genere». E in effetti quanto è accaduto è davvero fuori dal comune: «Tutti coloro che studiano le onde atmosferiche sono rimasti piuttosto sbalorditi» spiega Peter Brown, fisico dell’Università dell’Ontario occidentale (Canada). «Queste onde d’urto sono generate da un rapido movimento che comprime il materiale circostante, che nel caso dell’eruzione a Tonga era l’aria» spiega Mark Boslough, fisico del Los Alamos National Laboratory nel New Mexico. 
Amores ha in seguito collaborato con il New York Times per dare una veste grafica più accattivante alla sua simulazione è il risultato è visibile qui sotto.

Passaggio simultaneo. Analogamente all’Institute for Advanced Studies di Maiorca, anche la società Weathernews che in Giappone gestisce una rete di migliaia di sensori meteorologici, ha registrato l’onda atmosferica. Molti dei loro sensori hanno rilevato picchi di pressione dell’aria quasi simultanei al passaggio della prima onda d’urto il 15 gennaio e hanno registrato anche l’onda di ritorno, il 17 gennaio (vedi video sotto).

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Durante il viaggio, l’onda d’urto ha causato piccole alterazioni alle proprietà atmosferiche, facendo variare la temperatura, la presenza del vapore acqueo oppure creando increspature che potevano essere viste in alcune immagini satellitari, vedi sotto.

E ciò è successo negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, India, Cina, Australia e in Italia. Dopo circa 17 ore di viaggio nell’atmosfera, le onde acustiche generate dall’esplosione sono giunte sull’Etna e sono state registrate dalla rete infrasonica permanente che opera sul vulcano.
Le onde acustiche non erano udibili perché erano al disotto delle frequenze (inferiori a 20 Hz) che l’orecchio umano può percepire; ma la rete infrasonica dell’Etna è stata progettata proprio per questo, per rilevare il “ruggito” silenzioso dei vulcani. Il secondo passaggio dell’onda sonora si è registrato il 17 alle 9.25. Assumendo un percorso di circa 40.000 chilometri, la velocità media è stata di circa 1.111 Km/h, prossima a quella del suono al livello del mare che è di 1.35 Km/h.

Il numero di Focus in edicola dal 21 aprile al 20 maggio dedica un articolo di Liigi Bignami a tutte le eruzioni storiche che hanno avuto rivadute a livello planetario, che hanno cambiato il clima o hanno fatto sentire i loro effetti anche a decine di migliaia di km. Guarda l’anteprima.

Come le peggiori atomiche. Sia Amores che altri scienziati che studiano da anni simili fenomeni hanno definito “eccezionale” quanto provocato dal Tonga, in quanto per vedere qualcosa di simile bisogna risalire alle esplosioni nucleari realizzate nell’atmosfera negli Anni Sessanta. 
Secondo Brown l’onda generata dall’eruzione era di dimensioni simili a quella del più grande test atomico atmosferico mai condotto, quello della Bomba Tsar. Fu fatta esplodere nell’Artico sovietico nel 1961 e rilasciò energia equivalente a circa 50 milioni di tonnellate di TNT. «L’esplosione di Tonga ha sicuramente rilasciato più di quella quantità di energia» afferma Brown. I cambiamenti della pressione atmosferica osservati mentre l’onda viaggiava intorno alla Terra sono stati relativamente piccoli, una deviazione di meno dell’1 per cento della pressione standard. Ma i cambiamenti sono persistiti per decine di minuti e questo dimostra quanta energia ci fosse in gioco.
Secondo Greg Dusek, un fisico del NOAA, questa è stata probabilmente la prima volta dall’enorme eruzione del Krakatoa del 1883, che un’eruzione vulcanica sia riuscita a creare un’onda d’urto globale, che a sua volta ha generato onde oceaniche nei porti di tutto il mondo. L’onda d’urto del Krakatoa, che causò danni ai timpani dei marinai su una nave a 70 chilometri di distanza, è stata registrata dai barometri di tutto il mondo e anch’essa fece il giro del globo almeno tre volte. «Questa è la prima volta, tuttavia – ha scritto Dusek – che abbiamo visto accadere un simile fenomeno in tempo reale». 
Non solo onde d’urto. A Tonga l’eruzione del 15 gennaio ha ucciso almeno tre persone; case, strade, infrastrutture e aree seminate sono state distrutte o danneggiate e la barriera corallina ha subito danni ancora non ben definiti. I danni principali – stimati dalla Banca Mondiale in 90 milioni di dollari – sono stati causati dalla cenere vulcanica e dallo tsunami che si è prodotto in seguito all’eruzione. Lo tsunami ha viaggiato attraverso il Pacifico, generando onde alte fino ad un metro e mezzo lungo la costa nordamericana e più alte in Sud America. Per alcune località del Pacifico, lo tsunami è arrivato durante l’alta marea, determinando i livelli dell’acqua più alti dagli anni ’50.

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