Perché gli umani hanno perso la coda?

Non tutte le scimmie hanno la coda – e non parliamo solo di noi umani: anche oranghi, gorilla, scimpanzé e gibboni, cioè i primati più vicini a noi da un punto di vista genetico, sono privi di un’appendice che è invece presente nelle altre scimmie. Conosciamo da qualche tempo il momento in cui questa divisione è avvenuta: circa 25 milioni di anni fa, quando il nostro gruppo di primati si divise dai cercopitecidi (le cosiddette scimmie del Vecchio Mondo) per dare origine alla linea evolutiva che porterà fino a noi. E ora, grazie a uno studio pubblicato su Nature, conosciamo anche il meccanismo genetico che ha portato i nostri antenati a rimanere senza coda.

Pezzetto extra. Lo studio, condotto da un team del centro medico Langone Health della New York University, si è svolto in due fasi. Nella prima, il codice genetico delle scimmie con la coda è stato confrontato con quello dei primati senza coda (e quindi anche il nostro). L’analisi ha individuato un “pezzetto” di DNA assente nelle prime e presente nelle seconde. Il team ha poi usato questa stessa frazione di istruzioni genetiche per modificare il genoma di una serie di topi, alcuni dei quali sono cresciuti, non troppo sorprendentemente, senza coda. La porzione extra di DNA che ci portiamo dietro da 25 milioni di anni, quindi, sembra essere la causa genetica della nostra assenza di coda.

Effetti collaterali. La perdita della coda portò poi ad altre modificazioni anatomiche conseguenti: una su tutte la riduzione del numero di vertebre cervicali, le ultime delle quali sono rimaste e hanno cambiato forma dando origine al coccige. Non sappiamo ancora con certezza, comunque, come mai questa mutazione prese piede: la teoria più accreditata vuole che la perdita della coda ci abbia aiutato nella vita al suolo. È però probabile che si sia portata dietro anche qualche svantaggio: secondo gli autori dello studio, il pezzo di DNA responsabile della scomparsa della coda è anche quello che può causare, in un neonato su 1.000, la malformazione nota come spina bifida.

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Scomparso l’etologo Frans de Waal

Ha sfidato il principio di unicità dell’uomo, considerando gli animali “più umani”. E noi “più animali”. Ha dimostrato che empatia, altruismo, cooperazione, senso di giustizia e persino le alleanze per il potere le abbiamo in una certa misura ereditate dalle grandi scimmie. Ci ha lasciato il suo immenso contributo, al confine fra etologia e filosofia: il primatologo Frans de Waal se ne è andato nella notte del 15 marzo ad Atlanta, a 75 anni. Nella città americana dirigeva il Living Link Center al Yerkes Primate Center, istituto di ricerca avanzata che si propone di studiare l’evoluzione umana indagando sulle nostre strette somiglianze genetiche, cognitive e comportamentali con le grandi scimmie.

Visionario. Ho conosciuto de Waal a Nairobi nel 1982 quando in un congresso internazionale di primatologia era venuto a presentare la sua ricerca sulla “politica negli scimpanzé”. Era un giovane ricercatore olandese che aveva avuto modo di studiare una comunità di scimpanzé, messa in semilibertà su un’isola artificiale dello zoo di Arnhem (Paesi Bassi). Quell’uso del termine “politica” poteva sembrare esagerato. Ma perché lo utilizzava e che cosa aveva scoperto?

Politica fra gli scimpanzé. In sostanza, fra gli scimpanzé per diventare il maschio alfa e mantenere la posizione dominante, non occorreva essere grandi e grossi, ma era necessario tessere una rete di alleanza con altri maschi. Cementare i legami attraverso il grooming (pulizia reciproca del pelo), la divisione del cibo, condividere la simpatia verso le stesse femmine e aiutarsi reciprocamente in caso di conflitti con altri. Sta di fatto che fra gli scimpanzé di Arnhem ci fu persino un caso di “assassinio politico”, proprio così lo aveva definito de Waal. L’alleanza fra quattro maschi, aveva portato alla congiura: assalirono il vecchio leader per dare il comando a un altro. E provocarono la sua morte per le ferite riportate nella lotta.

Pacifismo naturale. La seconda volta che lo intervistai fu in occasione del suo libro Far la pace fra le scimmie (Rizzoli 1991). Il primatologo si era trasferito alla Zoo di San Diego per seguire, oltre agli scimpanzé (Pan troglodytes) i bonobo (Pan pamiscus). Il tema era divulgare il fatto che in realtà in queste due specie di scimmie antropomorfe si spende molto più tempo a costruire relazioni pacifiche e a mantenere la pace che a competere e ad aggredirsi.

Contributo femminile. In questo erano di aiuto, fra gli scimpanzé, soprattutto le femmine che facevano da cuscinetto.

Dividevano o distraevano i contendenti, mentre tutta la comunità disapprovava la violenza con urli e gesti di paura e repulsione. E dopo una litigata si cercava spesso la rappacificazione.

De Waal si rese conto dell’esistenza dell’empatia negli scimpanzé (il mettersi nei panni degli altri, per sentire dentro di sé la loro gioia o la loro sofferenza) quando vide diverse volte un individuo che aveva subito un torto o un’aggressione essere avvicinato da un proprio simile che lo consolava con abbracci o sedute di grooming. Lo studioso realizzò che si trattava di mettere da allora in poi in luce gli sforzi che gli scimpanzé fanno per la pace e il loro senso di compassione invece di proseguire un certo trend anglosassone che si focalizzava sulla competizione. Tanto più che le altre scimmie antropomorfe studiate da de Waal, i bonobo, risultavano del tutto pacifiche.

Sesso e matriarcato. Se negli scimpanzé il gruppo dei maschi era dominante, in quello dei bonobo vigeva una sorta di matriarcato. Erano al potere le femmine, non con la violenza verso i maschi. Ma con il sesso. De Waal fu il primo (assieme al giapponese Nishida Kuroda che le osservò in libertà nella foresta del Congo) a divulgare che le femmine bonobo, come le umane, facevano sesso tutto l’anno, indipendentemente dallo stato di calore o di estro. E lo facevano spesso frontalmente, come fra uomini e donne. Il sesso aveva un significato sociale staccato dalla riproduzione, poiché serviva a mantenere i maschi calmi e collaborativi, che per essere accettati dovevano anche donare o dividere cibo.

Sesso “alla bonobo”. Con rapporti promiscui non c’è paternità sicura ed esclusiva. Così, a differenza dei gorilla (dove dove vige l’harem e un solo maschio capo branco riproduttore) tutti i maschi bonobo devono sentirsi un po’ padri dei cuccioli del gruppo e ben disposti verso di loro. Il meccanismo “sesso in cambio di cibo” diventa un aiuto importante per le femmine con piccoli. Da qui è nata la teoria che alle origini dell’uomo siano state le femmine il primo embrione di socialità. E che queste portarono i maschi a collaborare nella crescita dei cuccioli facendo sesso alla bonobo.

Vicini all’uomo. Mentre si chiariva che i bonobo sono ancora più vicini geneticamente all’uomo degli scimpanzé, de Waal insisteva molto sull’idea che scimpanzé e bonobo possono essere presi a modello per ricostruire il comportamento dei nostri progenitori

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