San Servolo, da manicomio a laboratorio di sostenibilità. Il futuro sull’isola veneziana

Di primo mattino, il vaporetto che in dieci minuti porta dall’isola di San Servolo a Piazza San Marco, il cuore di Venezia, è occupato per metà da cani. Gli umani chiacchierano come vecchi conoscenti, un labrador sonnecchia stanco per le corse sul prato tra gli alberi, una vera goduria in una città come Venezia. La ricchezza di San Servolo è questa: l’isola che ha resistito alla cementificazione e alle lusinghe dei grandi complessi turistici è diventata centro culturale, laboratorio di rigenerazione urbana e spazio verde di cui i cittadini si sono appropriati.

La storia di San Servolo è roba da matti

Per oltre 200 anni l’isola, sebbene tra le più vicine al centro di Venezia, è stata  soltanto “il posto del manicomio“. Infatti, dal 1725 quando a San Servolo venne ricoverata la prima persona affetta da disturbi psichici, fino al 1978 quando la legge Basaglia chiuse i manicomi, l’isola era

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13 maggio 1978 entra in vigore la Legge Basaglia

Cent’anni fa nasceva Franco Basaglia (1924-1980), un ritratto dello psichiatra attraverso l’articolo “Matti da slegare” di Fabio Dalmasso tratto dagli archivi di Focus Storia.

La città dei matti. A Trieste tutti lo conoscono come l’ex Opp, sigla che fino al 1980 indicava l’Ospedale psichiatrico provinciale. In realtà si chiama Parco di San Giovanni, ma nella percezione cittadina è rimasta l’immagine della “città dei matti”. Quel luogo dove gli immensi padiglioni erano divisi in base alle diagnosi degli “ospiti”: qui gli uomini tranquilli, là le donne agitate e in un altro ancora i “sudici”, ben distanti dai villini riservati ai paganti tranquilli, divisi tra prima e seconda classe.

Una rivoluzione. Poi arrivò Franco Basaglia e tutto cambiò. Da luogo di reclusione, l’Opp divenne il simbolo e la realizzazione di quel sogno, quell’utopia che qualcuno bollò come folle e che lo psichiatra inseguiva da anni: restituire la dignità a quegli uomini e a quelle donne, a cui i manicomi l’avevano tolta. Molto semplice, ma fu una rivoluzione.

ANTIFASCISTA. Franco Basaglia nacque a Venezia l’11 marzo 1924. La sua infanzia, scrivono Francesco Parmegiani e Michele Zanetti nel loro libro Basaglia. Una biografia (Lint), «appare per qualche aspetto contraddittoria rispetto alla giovinezza e soprattutto alla maturità: è un ragazzino che parla poco, piuttosto scontroso, con pochi amici». Saranno il liceo prima (frequentato a Venezia) e l’università poi (a Padova) a provocare un profondo e radicale mutamento in Basaglia. Quel ragazzino taciturno, infatti, si trasforma: la passione politica si concretizza in una fiera e decisa opposizione al fascismo della Repubblica Sociale Italiana. «Giovani studenti universitari, questi oppositori del regime, finiscono tutti nella prigione di Santa Maria Maggiore di Venezia».

Vita privata. Il futuro psichiatra ci rimane quasi sei mesi, fino alla fine della guerra. È in quella cella che nasce in lui l’avversione verso le istituzioni chiuse. A 22 anni incontra per la prima volta la donna che gli starà al fianco tutta la vita, Franca Ongaro (1928-2005), moglie e indispensabile collaboratrice. Il fidanzamento dura sette anni e nel 1953 i due si sposano: l’anno dopo nasce il figlio Enrico e nel 1955 la figlia Alberta.

MONDI SEPARATI. Nel frattempo Basaglia porta a termine gli studi: si laurea in medicina nel 1949, specializzandosi nello studio delle malattie nervose e mentali (1953) presso la clinica diretta dal professor Giovanni Battista Belloni (1896-1975). Ma in questi anni non incontra mai il manicomio: come sottolineano Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio nel loro volume Franco Basaglia (Bruno Mondadori), «clinica universitaria e manicomio restano mondi separati, solo nominalmente appartengono alla stessa disciplina».

Tanta teoria e poca pratica, come racconterà lo stesso Basaglia ripensando a quegli anni: “Direi che tutto l’apprendimento reale avviene fuori dall’università”.

Il concorso. Appassionato di filosofia, Basaglia inizia a interessarsi alle nuove correnti della psichiatria che lo portano a nutrire dubbi sull’approccio utilizzato fino a quel momento. La svolta giunge nel 1961: l’amministrazione provinciale di Gorizia indice un concorso per la direzione del locale ospedale psichiatrico. Lui partecipa e vince.

L’ARRIVO A GORIZIA. Il passaggio dalle aule universitarie agli stanzoni del manicomio è traumatico: tutta la teoria assorbita all’università sembra disgregarsi di fronte alla realtà violenta dell’istituto. Sarà proprio questa prima esperienza (“un ospedale di 500 letti, dove erano usuali elettroshock e insulina”) a far dire allo psichiatra che “la psichiatria non si può insegnare all’università […] lo studente infarcito di definizioni con le quali classifica la schizofrenia, la psicosi maniacodepressiva, l’isteria, non sa che cos’è la ‘pratica psichiatrica’, e per questo dovrebbe uscire dall’università e andare in manicomio per incontrare i malati e comprendere i loro problemi”.

I cambiamenti. Dopo l’iniziale smarrimento, però, Basaglia accetta la sfida e si mette in azione: crea una squadra di collaboratori, soprattutto giovani psichiatri conosciuti a Padova, e decide di dare un primo segnale: eliminare i “corpetti”, cioè le camice di forza che venivano usate per i pazienti più irrequieti. Non solo: abolisce il camice bianco per dottori e infermieri, uno degli ostacoli che impediscono la nascita di un rapporto paritario tra medici e pazienti. Per Basaglia è fondamentale accostarsi ai malati, prenderli letteralmente sottobraccio per parlare e comprenderli. Per farlo occorre superare il trauma che quella “divisa” di medici e operatori porta con sé.

Umanizzare i rapporti. Eliminati corpetti e camici bianchi, Basaglia mette al bando anche l’elettroshock e organizza i primi incontri di gruppo, le prime assemblee dove siedono tutti in circolo: medici, infermieri e pazienti. All’inizio c’è diffidenza, i malati non parlano, ma lentamente il muro si incrina, si aprono brecce di dialogo: «I primi concreti segnali di autonomia di pensiero e giudizio arrivano come risposta alla richiesta di affrontare un argomento qualsiasi, di dare suggerimenti sulle cose da cambiare all’intero dell’ospedale che li ospita», scrivono Parmegiani e Zanetti. Per Basaglia è la conferma che l’approccio è giusto, che solo umanizzando il rapporto medici-pazienti si può sperare di migliorare la vita dei malati e curarli davvero.

Le critiche. Ma l’entusiasmo dello psichiatra e del suo team di collaboratori si deve scontrare con le voci critiche, anche all’interno dell’amministrazione provinciale. È soprattutto un fatto di cronaca nera ad aggravare la situazione: nel settembre 1968, infatti, Alberto Miklus, usufruendo di un permesso di uscita, uccide la moglie. Lo psichiatra viene rinviato a giudizio per concorso in omicidio con il suo collaboratore, e medico curante di Miklus, Antonio Slavich. Entrambi verranno assolti, ma l’episodio ha inevitabilmente conseguenze: Basaglia si prende una pausa e, dopo sei mesi trascorsi al Community Mental Health Centre di New York come visiting professor, lascia la direzione a Gorizia e accetta (nel 1970) quella dell’istituto di Parma.

LA RIVOLUZIONE CONTINUA. Quando lascia Gorizia, Basaglia è già un nome importante della psichiatria internazionale: nel 1967 aveva pubblicato Che cos’è la psichiatria? (Einaudi) e l’anno seguente L’istituzione negata (Einaudi). Nel 1969 sempre Einaudi aveva invece stampato Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, curato con Franca Ongaro.

A Parma, nel manicomio di Colorno, cerca di riproporre e ampliare l’esperienza goriziana, ma ostacoli burocratici e politici gli impediscono di completare i progetti. Sarà ancora una volta il Nordest a offrirgli l’opportunità per proseguire il lavoro. Nel 1971, infatti, vince il concorso per direttore dell’Ospedale psichiatrico di Trieste. Fin dal suo arrivo, alla fine del 1971, Basaglia prosegue il cammino intrapreso a Gorizia e alza il tiro: dispone la libera circolazione dei pazienti in quasi tutta la struttura; elimina alcune reti protettive; prosegue con le assemblee aperte e avvia una formazione professionale per gli infermieri. Soprattutto dà il via con prudenza, ma senza ripensamenti o dubbi, alla “liberazione” di gruppi di malati che vengono alloggiati in appartamenti fuori dall’ospedale, seguiti da medici e infermieri ma liberi di muoversi per la città, di condurre la propria vita.

CULTURA E DIGNITÀ. Nel manicomio, nel 1973, nasce la Cooperativa sociale lavoratori uniti, con una sessantina di malati addetti alla pulizia dei locali, delle cucine e del parco. I padiglioni che un tempo ospitavano i pazienti reclusi si trasformano in luoghi culturali: vengono invitati esponenti di spicco della cultura, come Dario Fo, che porta a Trieste alcuni dei suoi spettacoli; jazzisti internazionali come Ornette Coleman e Giorgio Gaslini; artisti poliedrici quali Franco Battiato e Moni Ovadia.

Vacanze pazzesche. Sempre in quegli anni nasce Marco Cavallo, il grande equino di cartapesta divenuto simbolo della rivoluzione basagliana.

E poi le vacanze per i “matti” (per il mare a Grado, per la montagna si opta per le Dolomiti bellunesi) e un memorabile viaggio in aereo: grazie alla collaborazione con Alitalia, Basaglia organizza un volo per un centinaio di ospiti del manicomio, uomini e donne. L’aereo decolla dall’aeroporto triestino di Ronchi dei Legionari (Gorizia), «si dirige verso Venezia, fa un paio di giri sulla città e torna a Ronchi. L’equipaggio definisce ammirevole la compostezza dei “matti”, la loro disciplina durante il volo e straordinaria la loro felicità al termine dell’esperienza», raccontano Parmegiani e Zanetti.

LA fine dei manicomi. Sotto la guida basagliana dell’Opp triestino i malati che possonoentrare e uscire sono sempre più numerosi: quando ne aveva assunto la direzione i ricoverati erano quasi 1.200, dopo poco più di tre anni erano meno di 850. E quando Basaglia se ne andrà, nel 1979, ne rimarranno soltanto 130. Quella che per molti è “l’invasione dei matti” non è sempre ben accolta e arrivano anche le denunce (una dozzina di procedimenti giudiziari per Basaglia). Nulla però può fermare l’onda che travolge il vecchio sistema psichiatrico. Ora l’obiettivo è uno soltanto: la chiusura del manicomio contestualmente all’apertura dei centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, in varie zone della città (il primo aprirà nel 1975).

La 180. I semi per la legge 180 sono gettati e presto verranno raccolti i frutti. Il 13 maggio 1978, infatti, il parlamento approva la tanto attesa (e necessaria) riforma psichiatrica con la promulgazione della legge 180, nota anche come “Legge Basaglia”. Due i principi alla base del testo: anche per chi è vittima di disturbi psichici il trattamento sanitario rientra nel campo del diritto alla salute e, dall’entrata in vigore della legge, i manicomi non possono più accogliere nuovi casi. Di fatto si sancisce la chiusura di tali istituti e contemporaneamente l’organizzazione sul territorio di adeguate strutture alla quale rivolgersi. «Basaglia aveva insistito affinché venisse rispettata la contemporaneità tra la chiusura dei manicomi e la funzionalità dei Centri di salute mentale sul territorio, o comunque di servizi alternativi.

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