La catastrofe dei rifiuti elettronici

Il 2022 è stato un anno pessimo per lo smaltimento dei rifiuti elettronici e nulla induce a pensare che il 2023 possa essere stato migliore (i dati si conosceranno solo nei prossimi mesi). Due anni fa, infatti, stando alle più recenti stime dell’Onu, il mondo si è disfatto in maniera non corretta di una quantità record di smartphone, televisori e altri dispositivi elettronici, contribuendo in modo netto alla crescita dell’inquinamento a livello globale.

I numeri della catastrofe ecologica. Si parla di 62 milioni di tonnellate di scarti, ma il dato più sconcertante è il fatto che meno di un quarto di essi sia stato riciclato. Ciò vuol dire che più di 45 milioni di tonnellate di metalli pesanti, di plastica e di sostanze chimiche tossiche sono state riversate nelle discariche e nell’ambiente, causando una vera e propria “catastrofe ecologica”. A usare questa definizione è stato Kees Balde, autore principale del Global E-waste Monitor commissionato dalle Nazioni Unite. I rischi maggiori sono, ovviamente, per la salute, con particolare attenzione a quella degli abitanti dei Paesi più poveri dove molti rifiuti elettronici vengono spediti, per disfarsene, da quelli più ricchi.

Rifiuti di valore. Quel che più stupisce è che questi “rifiuti” non sono senza valore, tutt’altro. Lo studio dell’Onu stima che dai metalli e dai chip in essi contenuti si possano ricavare all’incirca a 91 miliardi di dollari, più del quadruplo dell’ultima manovra finanziaria varata dal Governo Italiano. Eppure, meno di un quarto del totale viene recuperato in modo corretto, mentre il resto va perso bruciando, gettando in discarica o riciclando in maniera impropria gli scarti tecnologici. E gli scenari per il futuro non sono di certo rosei. Stando a quanto scritto nel report, tali numeri sono destinati a lievitare poiché la domanda di nuove tecnologie come pannelli solari o veicoli elettrici è in crescita e supera la capacità globale di riciclare tutti i prodotti di cui ci disfaremo per fare posto ai nuovi. 

La normativa in Italia. Nel nostro Paese, la corretta gestione dei Raee (un acronimo che sta per “rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche”) è disciplinata dal Decreto Legislativo 49 del 14 marzo 2014, che ha applicato la direttiva 2012/19/ dell’Unione Europea. Ai consumatori è richiesto di separare gli scarti elettronici da quelli domestici, evitando di smontarli o manometterli, e di seguire le normative locali sullo smaltimento che cambiano di comune in comune, ma che contemplano generalmente tre opzioni: il trasporto in un centro di raccolta, il ritiro a domicilio, l’adesione a giornate preposte al riciclo o a raccolte straordinarie.

 

Il riciclo (che non si fa). Una volta correttamente consegnati, gli scarti saranno avviati a una benefica filiera che inizierà con il prelievo da parte dei distributori/venditori autorizzati o da società che agiscono per loro conto, venendo successivamente mandati agli impianti di trattamento. Qui i Raee saranno divisi in base al tipo, e si procederà al recupero dei componenti (cavi, plastica, resistenze elettriche, metalli preziosi) e alla decontaminazione degli stessi da oli, gas, mercurio, fosforo e altri materiali pericolosi. Privati degli elementi nocivi, i residui verranno frantumati, e si scinderanno i minerali ferrosi dagli altri metalli grazie a separatori magnetici e a dispositivi a correnti indotte. Alcuni di queste sostanze recuperate, infine, verranno riciclate, mentre le altre saranno correttamente smaltite.

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Ripulire l’isola di plastica: ne vale la pena?

Lo scorso settembre, l’ultima evoluzione del progetto The Ocean Cleanup – l’organizzazione no-profit ambientalista olandese da tempo impegnata nello sviluppo di tecnologie per combattere l’inquinamento da plastica – ha dimostrato, in un test nelle acque occupate dalla Grande isola di plastica del Pacifico, di essere in grado di raccogliere fino a 18 tonnellate di plastica in un singolo “rastrellamento” di questo fortice di spazzatura fluttuante.

Ora la macchina mangia-rifiuti, una rete chilometrica sospinta da parte a parte da due navi, è pronta per affrontare una rimozione sistematica della Great Pacific Garbage Patch, l’isola di plastica grande 3 volte la Francia che le correnti hanno formato tra le Hawaii e la California. Il punto – affrontato in un approfondito articolo pubblicato sul New Scientist – è: ne vale davvero la pena?

No: rischiamo danni peggiori. Nonostante le migliori intenzioni della no-profit, eliminare quello che è ormai divenuto un triste simbolo dell’Antropocene potrebbe essere, ora che l’abbiamo creato alterando per sempre gli ecosistemi, un’impresa poco utile; non solo, persino dannosa. È la conclusione apparentemente controintuitiva cui sono giunti, dopo diversi anni di studi, scienziati dell’ambiente e biologi marini, e per almeno quattro diverse ragioni che qui proviamo a sintetizzare.

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1. Nulla possiamo contro le microplastiche. Il “Sistema 3” di The Ocean Cleanup consiste in una barriera fatta di rete, lunga 2,2 km e profonda 4 metri, trainata alle estremità da due navi che si muovono a bassa velocità: i rifiuti di plastica vengono incanalati verso un’area centrale detta “zona di ritenzione” dove la plastica è raccolta, per essere poi depositata su una nave e stipata in appositi container destinati ad impianti di riciclo.

Benché questa tecnologia sia in grado di ripulire l’area di un campo di calcio ogni cinque secondi, rimuovere i rifiuti più grossi e consistenti degli 1,8 migliaia di miliardi di pezzi che si stima formino la Grande isola di Plastica del Pacifico non risolverà il problema della microplastiche, ciascuna di meno di 5 millimetri di larghezza, che potrebbero costituire il 94% dei rifiuti di questa chiazza di spazzatura.

Ormai decine di studi scientifici dimostrano che sono proprio questi microframmenti di plastica a rappresentare il problema peggiore per gli animali marini. Secondo una ricerca del 2021 condotta dal GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research di Kiel in Germania, la prolungata esposizione alle microplastiche danneggia in modo grave l’abilità dello zooplancton (cioè la componente animale del plancton) di sequestrare carbonio dall’atmosfera e produrre ossigeno, in ultima analisi erodendo la capacità degli organismi oceanici di sostenere la vita sulla Terra.

Al momento purtroppo non disponiamo di metodi per rimuovere su larga scala le microplastiche dagli oceani (né dagli altri ambienti in cui sono ormai diffuse).

2. Si guarda nel punto sbagliato. Focalizzare gli sforzi sulle isole di plastica oceaniche potrebbe poi rimuovere l’attenzione dalle aree in cui si concentra l’inquinamento da plastica, ossia le coste. Per quanto impressionante, la Grande isola di plastica è soltanto la punta dell’iceberg del problema della plastica nei mari.

Ogni anno 11 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani, e solo l’1% di questa si accumula in queste regioni di materiali plastici galleggianti favorite dalle correnti (non esiste infatti una sola isola di plastica oceanica). Si pensa che gran parte dei rifiuti rimanga entro i 160 km dalla spiaggia, sospinta dai continui movimenti delle correnti finché non si disintegra in pezzi più piccoli. Una buona parte finisce persino intrappolata nei ghiacci Artici.

Oltretutto, come ha spiegato al New Scientist Nick Mallos dell’organizzazione Ocean Conservancy, «tutti i vortici di plastica si formano nella parte più centrale dei bacini oceanici. Arrivarci è molto costoso e dispendioso in termini di tempo e carburante», mentre sarebbe più efficiente concentrare gli sforzi di pulizia negli ambienti costieri.

Si stima che il Great Pacific Garbage Patch sia composto da 1,8 migliaia di miliardi di frammenti di plastica (circa 250 per ogni abitante del mondo) e che occupi un’area di circa 1,6 milioni di km2 – pari a circa tre volte la Francia.
© Shutterstock

3. È Una goccia nel mare. Secondo uno studio del novembre 2023 coordinato da Melanie Bergmann, biologa marina dell’Alfred Wegener Institute, in Germania, se anche i 200 dispositivi di The Ocean Cleanup funzionassero per 130 anni rimuoverebbero soltanto il 5% della plastica dispersa negli oceani. Il che dà l’idea non tanto dell’efficienza della tecnologia, quanto della portata del problema che dobbiamo affrontare e del fatto che è importante lavorare sulle cause, non sui sintomi. Senza contare che l’86% dei rifiuti di plastica analizzati nella Grande isola di plastica del Pacifico sembra provenire dal settore della pesca. L’operazione non interesserebbe quindi la fetta di plastica che ha origine da terra e che si accumula lungo le coste trascinata in mare dai fiumi. 

4. C’è vita tra i rifiuti. Infine c’è la questione di come la vita marina si sia adattata a questo mare di plastica che abbiamo gettato nei mari. Nel 2022, analizzando i pezzi di plastica più grossi recuperati nel Great Pacific Garbage Patch, la biologa Rebecca Helm, all’epoca all’Università del North Carolina, Asheville, ha scoperto che su di essi si è formato un nuovo ecosistema, costituito soprattutto da neuston, organismi come insetti marini, invertebrati, crostacei, molluschi, meduse che vivono sull’interfaccia aria-acqua.

In altri due successivi studi, gli scienziati dello Smithsonian Environmental Research Center del Maryland hanno osservato che il 90% dei reperti di plastica dell’isola del Pacifico analizzati ospitano ora piante marine o animali, e che tre quarti di queste specie sono costiere, e si sono ora adattate a vivere in mare aperto sfruttando la plastica. Questi nuovi ecosistemi sarebbero, con operazioni di pulizia per giunta poco efficaci nel debellare il problema tout-court, inevitabilmente cancellati. Come dice Helm: «Se i disturbi dell’ecosistema causati dalla plastica sono il vero problema, disturbare ulteriormente l’ecosistema per ripulire la plastica è effettivamente una soluzione?».

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L’isola di plastica ha bandiera e passaporto

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