La bellezza brutale di St Vincent

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Il 1991 se lo ricordano in Texas per il massacro di Luby, quando il pick-up di George Hennard era finito sulla vetrata di un locale e lui aveva cominciato a sparare, uccidendo ventitré persone e ferendone una trentina. Annie Clark aveva nove anni e la sua vita era già cambiata quando tra le sue mani c’era finito Nevermind dei Nirvana. Nella sua cameretta, i poster di Frank Zappa e King Crimson la osservavano mentre faceva finta di essere una rockstar con la sua chitarra rossa di plastica. Qualche anno dopo, lo strumento sarebbe diventato vero e lei avrebbe cominciato a suonarci i Jethro Tull e il suo amato Robert Fripp. Poi, si sarebbe andata a prendere il nome d’arte in un verso di There She Goes, My Beautiful World, brano scritto da Nick Cave con i suoi Bad Seeds che a un certo punto parla del poeta Dylan Thomas, morto ubriaco nell’ospedale di St Vincent.

In quasi due decenni, Clark ha pubblicato sette album e ognuno è stato una reincarnazione artistica, applicando in maniera eccelsa l’insegnamento di David Bowie. Marry Me nel 2007 presentava una cantautrice originale e abile nel miscelare varie sonorità, rese ancora più personalizzate dall’abilità di scrittura raggiunta in Actor, di due anni dopo. In Strange Mercy del 2011 il suo art pop è ancora più a fuoco, tanto da guadagnarsi l’attenzione di David Byrne, con cui pubblica l’eclettico Love This Giant l’anno successivo. L’impatto dell’ex Talking Heads su Clark contribuisce a rifinire la magnetica forza innovatrice di St Vincent, uscito nel 2014, il sensuale suono in lattice di Masseduction, del 2017, e l’intimismo dal sapore anni ’70 di Daddy’s Home, pubblicato nel 2021.

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Nella solitudine dello studio

All Born Screaming comincia con l’oscuro incedere di Hell Is Near. Reckless avanza lentamente da una penombra intimista in una tensione crescente che esplode nella violenza distorta del finale. Nella psicotica Broken Man è racchiuso l’approccio di Clark alla produzione: il suono del disco è nato nella solitudine dello studio, maneggiando i controlli del mixer e, come nel caso del brano, facendo passare suoni attraverso vecchie macchine a nastro giapponesi.

Cate Le Bon

Un’altra presenza costante nell’album è quella della cantautrice britannica Cate Le Bon, che compare anche come coautrice di Big Time Nothing, un brano dal piglio hip hop che ridefinisce l’abilità camaleontica di St Vincent. Il suo, nelle atmosfere da James Bond di Violent Times, diventa un disperato bisogno d’amore. L’intima e meditativa he Power’s Out racconta l’interruzione elettrica in una città che si rivela anche un blackout emotivo, mentre la stroboscopica Sweetest Fruit si apre con il verso “la mia Sophie si è arrampicata sul tetto per vedere meglio la luna”, una elegia per la compianta producer scozzese morta nel 2021. So Many Planets rappresenta l’apice lirico di Clark con versi come “sono fuori moda, ho Dio alle calcagna”, “sto lanciando promesse come fossero bombe H”. La title track finale è una suite di quasi sette minuti che regge il concetto dell’intero album: siamo nati urlando, quindi protestando perché, forse, sappiamo già che bisogna vivere pienamente l’unica vita che abbiamo. Una vita che a St Vincent ha permesso di chiudere un cerchio, ospitando in alcuni brani Dave Grohl dei Foo Fighters e dei suoi amati Nirvana.

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Attività di Pasqua: il poster che diventa un gioco

Per prepararsi alla Pasqua, creare una decorazione e parlare dei simboli propri di questa festa ho creato un poster gigante che si trasforma anche in un gioco!

Si tratta di un poster di grandi dimensioni che i bambini possono divertirsi a colorare con la scritta “Buona Pasqua” e tante immagini al suo interno. Un poster che si trasforma in un tabellone di gioco.

All’interno del poster vi sono infatti 40 immagini legate alla Pasqua (fiori, uova, colombe, arcobaleni…) che i bambini dovranno trovare. Un mazzo di carte con i 40 disegni fa parte del kit di gioco.

Come si può usare il poster:

come un normale cartellone da colorare a più mani e poi appendere in classe

come un tabellone di gioco: si assembla, si mischiano le carte e a turno se ne estrae una dal mazzo. Il primo che riesce a trovare il disegno della carta all’interno del poster puo’ colorarlo. Carta dopo carta, si colorerà tutto il poster che poi potrà essere appeso

si assembla il poster, si mischiano le carte ed ognuno ne estrae a sorte una, il cui disegno dovrà colorare sul cartellone.

Sotto trovate sia il poster gigante che le carte e l’immagine del poster in formato A4 per poter giocare anche in piccolo

Questa attività è utile per

introdurre il tema della Pasqua

parlare dei simboli di questa festa

lavorare in gruppo

allenare l’attenzione

creare un poster tutti insieme per abbellire la classe

Trovate il poster gigante qui

Carte gioco e immagine in formato A4 le trovate qui

Altre idee prese in rete

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Post di Paola Misesti

Ripulire l’isola di plastica: ne vale la pena?

Lo scorso settembre, l’ultima evoluzione del progetto The Ocean Cleanup – l’organizzazione no-profit ambientalista olandese da tempo impegnata nello sviluppo di tecnologie per combattere l’inquinamento da plastica – ha dimostrato, in un test nelle acque occupate dalla Grande isola di plastica del Pacifico, di essere in grado di raccogliere fino a 18 tonnellate di plastica in un singolo “rastrellamento” di questo fortice di spazzatura fluttuante.

Ora la macchina mangia-rifiuti, una rete chilometrica sospinta da parte a parte da due navi, è pronta per affrontare una rimozione sistematica della Great Pacific Garbage Patch, l’isola di plastica grande 3 volte la Francia che le correnti hanno formato tra le Hawaii e la California. Il punto – affrontato in un approfondito articolo pubblicato sul New Scientist – è: ne vale davvero la pena?

No: rischiamo danni peggiori. Nonostante le migliori intenzioni della no-profit, eliminare quello che è ormai divenuto un triste simbolo dell’Antropocene potrebbe essere, ora che l’abbiamo creato alterando per sempre gli ecosistemi, un’impresa poco utile; non solo, persino dannosa. È la conclusione apparentemente controintuitiva cui sono giunti, dopo diversi anni di studi, scienziati dell’ambiente e biologi marini, e per almeno quattro diverse ragioni che qui proviamo a sintetizzare.

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1. Nulla possiamo contro le microplastiche. Il “Sistema 3” di The Ocean Cleanup consiste in una barriera fatta di rete, lunga 2,2 km e profonda 4 metri, trainata alle estremità da due navi che si muovono a bassa velocità: i rifiuti di plastica vengono incanalati verso un’area centrale detta “zona di ritenzione” dove la plastica è raccolta, per essere poi depositata su una nave e stipata in appositi container destinati ad impianti di riciclo.

Benché questa tecnologia sia in grado di ripulire l’area di un campo di calcio ogni cinque secondi, rimuovere i rifiuti più grossi e consistenti degli 1,8 migliaia di miliardi di pezzi che si stima formino la Grande isola di Plastica del Pacifico non risolverà il problema della microplastiche, ciascuna di meno di 5 millimetri di larghezza, che potrebbero costituire il 94% dei rifiuti di questa chiazza di spazzatura.

Ormai decine di studi scientifici dimostrano che sono proprio questi microframmenti di plastica a rappresentare il problema peggiore per gli animali marini. Secondo una ricerca del 2021 condotta dal GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research di Kiel in Germania, la prolungata esposizione alle microplastiche danneggia in modo grave l’abilità dello zooplancton (cioè la componente animale del plancton) di sequestrare carbonio dall’atmosfera e produrre ossigeno, in ultima analisi erodendo la capacità degli organismi oceanici di sostenere la vita sulla Terra.

Al momento purtroppo non disponiamo di metodi per rimuovere su larga scala le microplastiche dagli oceani (né dagli altri ambienti in cui sono ormai diffuse).

2. Si guarda nel punto sbagliato. Focalizzare gli sforzi sulle isole di plastica oceaniche potrebbe poi rimuovere l’attenzione dalle aree in cui si concentra l’inquinamento da plastica, ossia le coste. Per quanto impressionante, la Grande isola di plastica è soltanto la punta dell’iceberg del problema della plastica nei mari.

Ogni anno 11 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani, e solo l’1% di questa si accumula in queste regioni di materiali plastici galleggianti favorite dalle correnti (non esiste infatti una sola isola di plastica oceanica). Si pensa che gran parte dei rifiuti rimanga entro i 160 km dalla spiaggia, sospinta dai continui movimenti delle correnti finché non si disintegra in pezzi più piccoli. Una buona parte finisce persino intrappolata nei ghiacci Artici.

Oltretutto, come ha spiegato al New Scientist Nick Mallos dell’organizzazione Ocean Conservancy, «tutti i vortici di plastica si formano nella parte più centrale dei bacini oceanici. Arrivarci è molto costoso e dispendioso in termini di tempo e carburante», mentre sarebbe più efficiente concentrare gli sforzi di pulizia negli ambienti costieri.

Si stima che il Great Pacific Garbage Patch sia composto da 1,8 migliaia di miliardi di frammenti di plastica (circa 250 per ogni abitante del mondo) e che occupi un’area di circa 1,6 milioni di km2 – pari a circa tre volte la Francia.
© Shutterstock

3. È Una goccia nel mare. Secondo uno studio del novembre 2023 coordinato da Melanie Bergmann, biologa marina dell’Alfred Wegener Institute, in Germania, se anche i 200 dispositivi di The Ocean Cleanup funzionassero per 130 anni rimuoverebbero soltanto il 5% della plastica dispersa negli oceani. Il che dà l’idea non tanto dell’efficienza della tecnologia, quanto della portata del problema che dobbiamo affrontare e del fatto che è importante lavorare sulle cause, non sui sintomi. Senza contare che l’86% dei rifiuti di plastica analizzati nella Grande isola di plastica del Pacifico sembra provenire dal settore della pesca. L’operazione non interesserebbe quindi la fetta di plastica che ha origine da terra e che si accumula lungo le coste trascinata in mare dai fiumi. 

4. C’è vita tra i rifiuti. Infine c’è la questione di come la vita marina si sia adattata a questo mare di plastica che abbiamo gettato nei mari. Nel 2022, analizzando i pezzi di plastica più grossi recuperati nel Great Pacific Garbage Patch, la biologa Rebecca Helm, all’epoca all’Università del North Carolina, Asheville, ha scoperto che su di essi si è formato un nuovo ecosistema, costituito soprattutto da neuston, organismi come insetti marini, invertebrati, crostacei, molluschi, meduse che vivono sull’interfaccia aria-acqua.

In altri due successivi studi, gli scienziati dello Smithsonian Environmental Research Center del Maryland hanno osservato che il 90% dei reperti di plastica dell’isola del Pacifico analizzati ospitano ora piante marine o animali, e che tre quarti di queste specie sono costiere, e si sono ora adattate a vivere in mare aperto sfruttando la plastica. Questi nuovi ecosistemi sarebbero, con operazioni di pulizia per giunta poco efficaci nel debellare il problema tout-court, inevitabilmente cancellati. Come dice Helm: «Se i disturbi dell’ecosistema causati dalla plastica sono il vero problema, disturbare ulteriormente l’ecosistema per ripulire la plastica è effettivamente una soluzione?».

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L’isola di plastica ha bandiera e passaporto

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