Fusione permafrost: non è un punto di non ritorno
I tipping points o punti di non ritorno a cui talvolta si fa riferimento parlando di crisi climatica sono delle soglie critiche, superate le quali le conseguenze del riscaldamento globale diventano irreversibili, con ricadute a catena sugli equilibri planetari. Uno di quelli più comunemente citati è la fusione del permafrost, il terreno gelato che ricopre quasi un quarto delle terre emerse dell’emisfero settentrionale.
Tuttavia, secondo un nuovo studio, considerare il permafrost una “bomba a orologeria”, pronta a detonare ovunque tutta in una volta raggiunta una certa soglia di rialzo delle temperature globali, non è scientificamente corretto. Non esiste un unico punto di non ritorno climatico per tutto il permafrost terrestre. Piuttosto, ne esistono tanti, a livello locale, e non è che sia una buona notizia. La ricerca è stata pubblicata su Nature Climate Change.
Meno permafrost, più emissioni. Quando il permafrost fonde, il materiale organico (piante e animali) conservato in esso, fino a quel momento non decomposto per le basse temperature, diventa disponibile per i microrganismi deposti al suo degrado, un po’ come succede agli alimenti nel nostro freezer quando va via la luce. Il risultato è il rilascio di grandi quantità di metano e anidride carbonica, gas serra che vanno a loro volta a peggiorare il riscaldamento globale, favorendo la fusione di nuovo permafrost… e così via.
Questo circolo vizioso ha portato alcuni scienziati a ritenere la situazione del permafrost globale una situazione potenzialmente esplosiva pronta a scoppiarci tra le mani. Chi ritiene lo scioglimento del permafrost uno dei tipping points globali, pensa che la fusione sia dapprima graduale e che, raggiunta una certa soglia critica, il processo di fusione diventerà “auto-amplificante” portando al collasso irreversibile di tutto il permafrost dell’Artico.
Ma è davvero così? L’ipotesi era controversa e ritenuta incerta anche dagli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Ora un team dell’Alfred Wegener Institute, Helmholtz Centre for Polar and Marine Research (AWI) di Potsdam, in Germania, ha voluto vederci più chiaro. Passati in rassegna i processi che possono accelerare la fusione del permafrost, i ricercatori hanno valutato su quale scala spaziale (locale, regionale o globale) potessero alimentare un circolo vizioso di fusione-emissioni-nuova fusione dopo un certo livello di global warming.
Piccoli circoli viziosi (non meno dannosi). Il risultato è che, sì, ci sono alcuni processi geologici, fisici o idrologici che possono provocare una fusione auto-amplificante, ma questi fenomeni agiscono solo a livello locale.
Un esempio sono i cosiddetti laghi termocarsici, specchi d’acqua dolce formati dall’acqua di disgelo del permafrost. Con la loro superficie più scura assorbono maggiori quantità di energia solare e intensificano la fusione del permafrost circostante, ma questo è un circolo vizioso soltanto a livello locale o regionale. «Non ci sono prove di processi interni autoamplificanti che, a partire da un certo grado di riscaldamento globale, influenzino tutto il permafrost e ne accelerino lo scongelamento a livello globale», spiega Jan Nitzbon, primo autore dello studio.
Nessuna soglia sicura. Nulla di cui preoccuparsi, dunque? Insomma. La presenza di numerosi e tanto diversi punti di non ritorno locali, che si esauriranno in momenti diversi e per diversi livelli di global warming, sta facendo in modo che la fusione globale del permafrost prosegua intensificandosi di pari passo con l’aumento del riscaldamento globale. La perdita totale del permafrost dovrebbe avvenire quando avremo raggiunto i +5 o +6 gradi di riscaldamento globale dall’era pre-industriale.
«In altre parole, non esiste un margine di sicurezza del riscaldamento – come suggerisce l’immagine del tipping point – che possiamo ancora sfruttare finché non superiamo il valore soglia», scrivono gli autori dello studio. «Prima l’umanità riuscirà a raggiungere l’obiettivo di emissioni nette zero, più regioni potranno essere preservate come habitat unici e serbatoi di carbonio».
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