Senza paura, le studenti scuotono la base del regime

Senza paura, le studenti scuotono la base del regime

La protesta delle studenti a Shiraz, nella provincia iraniana di Fars, contro un membro delle Guardie Rivoluzionarie

Iran. «Vattene via», il grido delle liceali contro il basij che tiene un comizio per strada: un simbolo della Repubblica islamica, la sua fedelissima forza paramilitare. Di Maio chiama Teheran senza citare direttamente Piperno: la chiave è l’’accordo nucleare

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Usa-Iran: radici storiche di un rapporto difficile

«L’Iran non ha intenzione di impegnarsi in un conflitto con gli Stati Uniti nella regione. Tuttavia, se gli Stati Uniti avviassero operazioni militari contro l’Iran, i suoi cittadini, o la sua sicurezza e i suoi interessi, l’Iran utilizzerà il suo diritto intrinseco a rispondere in modo proporzionato», le parole dell’ambasciatore iraniano Saed Iravani al Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 14 aprile 2014 fanno tremare il mondo, ma vediamo dove affonda le sue radici la rivalità Usa-Iran attraverso l’articolo “Alta tensione” di Simone Cosimelli, tratto dagli archivi di Focus Storia. 

Usa vs Iran. Nel febbraio 1979 James Markham, corrispondente del New York Times catapultato a Teheran nei giorni convulsi e angoscianti della rivoluzione islamica, la descrisse così: “Una rivolta popolare senza precedenti nel moderno Medio Oriente”. Per l’Iran cominciò la lunga pagina della Repubblica islamica, mentre per gli Stati Uniti comparve sulla scena un nuovo antagonista. Dopo 45 anni, la rivalità tra Iran e Usa tiene ancora il mondo con il fiato sospeso. Ma cos’è accaduto negli ultimi decenni?

LE ORIGINI. La sorte dell’Iran è stata segnata da due fattori: l’islam e il petrolio. Nel mondo, l’80% dei musulmani è sunnita, ma l’Iran è a maggioranza sciita; secondo questa corrente dell’islam, i legittimi successori di Maometto furono Ali, cugino e genero del Profeta, e i suoi 11 discendenti (i 12 imam). Nel corso del tempo lo sciismo si è distinto per la forte influenza del clero sulla vita culturale e politica. E in particolare gli ayatollah, gli esperti della legge coranica, hanno avuto un peso rilevante.
La presenza di enormi giacimenti di petrolio, invece, ha reso l’Iran un Paese prezioso e strategico. Già all’inizio del Novecento i britannici ne sfruttavano i pozzi petroliferi e durante la Seconda guerra mondiale, per non lasciarli in mano ai nazisti, gli Alleati occuparono il Paese, favorendo nel 1941 l’ascesa dello scià Reza Pahlavi (1919-1980) per assicurarsi lo sfruttamento dell’oro nero.

Il petrolio. Quando nel 1953 il primo ministro iraniano in carica, Mohammad Mossadeq (1882-1967), contestò il sovrano e nazionalizzò l’industria petrolifera (mettendo a rischio i profitti delle compagnie straniere), la reazione di Usa e Regno Unito fu durissima. I servizi segreti angloamericani appoggiarono un colpo di Stato che rovesciò Mossadeq, e lo scià, di nuovo saldamente sul trono, eliminò gli oppositori, represse i movimenti islamici e affidò la gestione del greggio a un consorzio internazionale.

L’Iran visse per anni sotto l’ombrello dell’Occidente, e Reza Pahlavi, diventato la sentinella degli interessi americani nel Golfo, decuplicò le spese in armamenti e divenne l’uomo degli Stati Uniti.

Eroe nazionale. L’Iran era il secondo Paese esportatore di greggio al mondo e possedeva il 95% delle riserve mondiali di gas, ma manteneva redditi pro capite, tassi di alfabetizzazione e mortalità infantile da fondo classifica. Le profonde disuguaglianze sociali e il risentimento per le ingerenze straniere portarono il carismatico ayatollah Ruhollah Khomeini (1902-1989) a denunciare l’allineamento dell’Iran ai canoni occidentali. La protesta fu repressa, e Khomeini, arrestato ed esiliato (prima in Turchia, dal ’63 in Iraq e infine in Francia), divenne un eroe.

La rivoluzione. All’inizio del 1979 arrivò il punto di rottura. In seguito a una crisi economica, milioni di iraniani scesero in piazza e indussero lo scià alla fuga. Così l’ayatollah, all’epoca esule a Parigi, raggiunse Teheran in aereo: dopo 14 anni di assenza rientrò in patria da trionfatore e in veste di Guida Suprema istituì una Repubblica islamica. Un esperimento senza precedenti: gli organi politici (parlamento e presidente) erano legati a doppio filo alle autorità religiose. Mai nella storia dell’islam il clero aveva acquisito tanto potere. La stampa venne censurata e il dissenso represso. Gli Stati Uniti furono identificati come il “Grande Satana” e i ponti con l’Occidente vennero tagliati.

La crisi degli ostaggi. Quando nel novembre del 1979 gli Usa accolsero lo scià Pahlavi, un gruppo di estremisti musulmani, per ritorsione, sequestrò per 444 giorni 52 dipendenti dell’ambasciata americana a Teheran, fino al 1981. Il 24 aprile 1980 gli Usa tentarono anche la via del blitz militare, che si risolse in un fallimento: ne uscirono umiliati, perdendo anche otto soldati in una maldestra azione di recupero. Anni duri per la tenuta degli Stati Uniti, prima provati dalla guerra in Vietnam, poi colpiti dallo scandalo Watergate (1974), dal rialzo dei prezzi del petrolio e infine dalla “crisi degli ostaggi”: a quel punto era chiaro che la superpotenza non era più invulnerabile.

ANNI DIFFICILI. Il Medio Oriente divenne una polveriera. Si acuirono le tensioni tra sunniti, capeggiati dall’Arabia Saudita, storica alleata delle potenze occidentali e dal 1945 vincolata da un patto di ferro agli Usa, e sciiti, riuniti intorno al nuovo Iran. Si inasprì il conflitto tra Israele e i palestinesi. E la politica aggressiva del dittatore iracheno Saddam Hussein (1937-2006) portò ulteriore incertezza.

Alleati di Israele e dei sauditi, gli Usa si tutelarono dichiarando che avrebbero considerato ogni episodio di violenza contro la propria posizione come un atto di terrorismo.

Guerra al terrorismo. «È necessario partire da questo momento», spiega Luca Micheletta, docente di Relazioni internazionali alla Sapienza di Roma, «per comprendere quella che per gli Usa è diventata la “Terza guerra mondiale”, ovvero la guerra al terrorismo che minaccia cittadini e interessi statunitensi. Dopo la conclusione della crisi degli ostaggi, l’amministrazione di Ronald Reagan (1981-1989) chiarì al mondo che gli Stati Uniti non avrebbero più tollerato fatti come quelli di Teheran. La difficoltà di una lotta risolutiva contro il terrorismo ha spinto Washington, fin dagli Anni ’80, a considerare aggressori gli Stati che sostengono gruppi terroristici e a reprimere questi atteggiamenti con il ricorso ad azioni unilaterali, anche di carattere militare, in nome del principio di legittima difesa». Così con l’Iran, accusato di sostenere gruppi guerriglieri come il palestinese Hamas e il libanese Hezbollah, non ci furono cedimenti. E mentre nei cortei iraniani risuonava lo slogan “morte all’America”, gli Usa imponevano sanzioni economiche.

Guerre d’interesse. Quando nel 1980, per espandersi, l’Iraq dichiarò guerra all’Iran, gli Stati Uniti appoggiarono Saddam. Gli scontri causarono almeno un milione di vittime e, senza un vincitore, durarono otto anni. Khomeini morì nel 1989 e al suo posto venne scelta una nuova Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei (ancora in carica). Nei primi Anni ’90, per mantenere il controllo dell’area, gli Stati Uniti mostrarono i muscoli: pur avendo appoggiato l’Iraq contro l’Iran, sconfissero Saddam, che aveva attaccato il Kuwait, ma senza arrivare a deporlo.

11 settembre. All’inizio del nuovo millennio, dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 a New York da parte di Al-Quaeda, gli Usa intervennero direttamente. Il presidente George W. Bush inserì anche l’Iran in quello che definì “l’asse del male”, un gruppo di nazioni responsabili del terrorismo internazionale. In quel contesto Teheran, simbolo della resistenza alla potenza occidentale, rivendicò un ruolo da protagonista, migliorò l’esercito e avviò esperimenti per dotarsi di armi atomiche, violando il trattato di non proliferazione nucleare sottoscritto dallo scià Pahlavi nel 1968.

Nemici per la pelle. L’antiamericanismo, già ben radicato, si è accentuato in seguito alla presenza statunitense nell’area mediorientale. «Dopo l’attacco alle Torri gemelle», continua Micheletta, «l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 e quella dell’Iraq nel 2003 hanno comportato, in aree di interesse iraniano, una massiccia presenza militare statunitense, che ha aggravato lo scontro tra Teheran e Washington.

Non c’è dubbio che l’Iran sia il Paese che, insieme alla Russia, ha tentato e tenta ancora oggi di sabotare gli sforzi di Washington (secondo i propri interessi) per stabilizzare l’intera area. Il contenimento o il respingimento degli Stati Uniti coincide per il regime di Teheran con l’espansione della propria influenza sul mondo sciita, cioè su una parte importante del mondo arabo. E questo spiega la rivalità dell’Iran con l’Arabia Saudita (sunnita) e il conseguente consolidamento della storica collaborazione tra sauditi e statunitensi. Non bisogna infine dimenticare che è ben presente, nell’opinione pubblica mediorientale, la questione israeliano-palestinese. L’Iran ha tenuto viva negli ultimi due decenni, caduto Saddam Hussein nel 2003 e indebolito Assad in Siria, una lotta senza compromessi contro Israele, che produce consensi nel mondo arabo ed è un altro motivo di scontro tra Washington e Teheran».

Escalation? Oggi il clima tra i due Paesi resta incandescente, dopo l’attacco di droni iraniani contro Israele, che rischia di innescare un’escalation imprevedibile e far tornare indietro di 45 anni l’orologio della Storia.

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Si fa presto a dire velo

Lo studente scrive a Renzi: “Di Maio inviato UE, ma a cosa serve studiare? Solo in Italia si diventa Ministro degli Esteri senza esperienza”

Di redazione

Esordio in edicola per il nuovo Riformista con il leader di Italia viva, Matteo Renzi, come direttore editoriale. Subito un contributo che farà discutere. Lo ha scritto uno studente di un liceo classico di Treviso.

Samuele scrive al giornale per lamentarsi della nomina di Luigi Di Maio, ex ministro degli Esteri, a inviato UE nel Golfo Persico.
“Sono uno studente dell’ultimo anno di Liceo Classico e del primo anno di Conservatorio. Vivo a Treviso, dove sono nato, e mi appassiona profondamente la politica sia interna che estera. Recentemente, ho appreso che Luigi di Maio, con l’approvazione di Joseph Borrell, sta per essere nominato Inviato Speciale UE al Golfo Persico, con il compito di gestire le forniture di gas e petrolio provenienti da quella zona, particolarmente delicata dal punto di vista degli equilibri internazionali. Vorrei condividere con lei una riflessione personale su questo argomento”.
“Sono un ragazzo che sogna di intraprendere il corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche, e considero questi temi molto seri e affascinanti. Personalmente, trovo questa nomina ingiusta, poco meritocratica e deludente. Ingiusta perché credo che in Italia ci sia un’ampia gamma di giovani diplomatici, funzionari, consoli o aspiranti tali che meritano una carriera soddisfacente, che potrebbe culminare o includere una nomina come quella che otterrà Di Maio. Penso a giovani che hanno dedicato ore di studio e fatto sacrifici per raggiungere tali obiettivi, scegliendo un percorso non semplice per ottenere soddisfazioni personali”.
Poi l’affondo: “Ritengo la nomina poco meritocratica in quanto conferma una preoccupazione che ho da tempo: oggi, sembra che nessuno abbia più un passato e non debba più rispondere delle cose dette o fatte. Di Maio è un individuo che è entrato in Parlamento con l’intenzione di combattere l’Europa, assumendo un atteggiamento ostile ed euroscettico. Ha sostenuto posizioni poco liberali, moderate ed europeiste, con una retorica poco istituzionale e profondamente populista. Inoltre, vi è un aspetto oggettivo legato ai titoli di studio che non si può ignorare: certamente si può imparare sul campo, ma ritengo che solo in Italia si possa diventare Ministro degli Esteri con un diploma di scuola superiore e senza esperienza lavorativa sostanziale alle spalle”.
E ancora: “Infine, trovo tutto ciò deludente perché penso che dall’Europa dovrebbe arrivare un messaggio diverso ai giovani: non si va avanti perché si “diventa amici di”, ma perché si “merita di”. Luigi di Maio avrà certamente maturato nel corso degli anni, ma non stiamo parlando di una posizione espressa male in un momento specifico, ma di un’intera carriera politica costruita su principi (molto discutibili) poi rinnegati una volta raggiunto un certo livello”.
Poi la chiosa amara: “Questo non dovrebbe essere il modello di carriera e di intraprendenza personale a cui un giovane europeo deve guardare, ed è un peccato che invece questa nomina vada proprio in questa direzione”.

Pubblicato in Cronaca

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