L’uccello del miele preferisce il dialetto
Che cosa fa in Africa un uccello selvatico quando incontra un uomo? Generalmente scappa, a meno che non sia l’indicatore golanera (Indicator indicator). In tal caso gli svolazza in alto sopra la testa emettendo richiami, perché sa che l’uomo può facilmente accedere, utilizzando un’ascia e il fumo per stordire le api, al contenuto di un alveare di cui l’uccello conosce la posizione, prendersi il miele e lasciare al volatile la cera di cui si nutre. A suon di fischi e voli direzionali, l’indicatore sa condurre con perizia i cercatori di miele fino all’alveare da saccheggiare per spartirsi con loro il bottino. E se questi non sono nei paraggi, l’indicatore golanera va a cercarli anche per chilometri.
Un nuovo studio. Vi avevamo già parlato della collaborazione, instaurata da tempo immemorabile, fra questo uccello selvatico e i cercatori di miele di alcune etnie dell’Africa orientale, ma da un po’ di tempo questi uccelli sono ancora sotto i riflettori di etologi e antropologi, che hanno pubblicato un nuovo studio su Science. La ricerca, firmata da Claire Spottiswoode, del Dipartimento di zoologia dell’Università di Cambridge, e dall’antropologo Brian Wood, dell’Università di California, ha appurato che fra gli indicatori e i cercatori di miele si sono instaurati differenti modi di comunicare a seconda delle località in cui si trovano.
In dialetto. In altre parole, se il rapporto istintivo con l’uomo è da considerare una coevoluzione (adattamento evolutivo in rapporto mutuo) ereditabile geneticamente dall’indicatore golanera, la comunicazione vocale viene appresa culturalmente in diverse forme dialettali. Per esempio, quando i cacciatori raccoglitori Hadza della Tanzania vogliono chiamare un uccello indicatore, fanno un particolare fischio melodico che suscita tre volte di più la sua risposta collaborativa rispetto a quando i cercatori appartengono ad altre tribù e usano vocalizzazioni diverse.
Basta un trillo. Gli Yao del Mozambico chiamano invece i locali indicatori golanera con un trillo, facendo vibrare la lingua sul palato, seguito da un suono gutturale, e ottengono la loro attenzione almeno due volte di più rispetto ai richiami effettuati da cercatori estranei.
Mimetizzarsi con un fischio. Le vocalizzazioni “dialettali” vengono culturalmente trasmesse, da secoli, se non millenni, presso i cercatori di miele delle diverse etnie. E risalgono a diversi adattamenti, alle tattiche venatorie e all’ambiente. Per esempio, il fischio melodioso degli Hadza, che assomiglia molto a quello di un uccello, serve a non insospettire altri animali selvatici che questi cacciatori e raccoglitori sono sempre pronti a sorprendere e a colpire con le loro frecce avvelenate.
Caccia grossa. Presso gli Hadza (o Hadzabe), la ricerca del miele, alimento che contribuisce fino al 20 per cento del loro fabbisogno calorico, avviene in contemporanea alle battute di caccia, per esempio all’antilope kudu. La comparsa di un indicatore golanera fa dividere il gruppo: una parte interrompe la ricerca del mammifero per andare a saccheggiare l’alveare seguendo il volatile, come mostra il video qui sotto girato da noi di Focus.
Elefante avvisato… Gli Yao del Mozambico chiamano invece gli uccelli indicatori con un suono dal timbro chiaramente umano, per rivelare la loro presenza anche a elefanti e bufali, tutt’altro che rari in quell’area. Meglio avvisarli, in modo da non incontrarli all’improvviso nella boscaglia e rischiare una carica per reazione.
Fotogallery
Faccia a faccia con le api
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