Il cibo del futuro è… il pitone?

Uno dei grandi (eufemismo) problemi che l’umanità dovrà affrontare in futuro sarà quello della carenza di cibo: molti raccolti rischiano di non sopravvivere alla siccità e all’aumento delle temperature, l’allevamento intensivo è sempre più insostenibile, si tratta di una delle cause principali di quelle emissioni che stanno creando e amplificando il problema a livello globale. Per questa, la ricerca di soluzioni alternative è sempre in corso, e l’ultima idea arriva da uno studio pubblicato su Scientific Reports, che propone di prendere in considerazione, come fonte di proteine ad alto rendimento e basso impatto ambientale, la carne di pitone.

 

Allevamenti di prova. L’allevamento di pitone a scopi culinari non è una novità assoluta: in diverse parti dell’Asia, sia il pitone reticolato sia il pitone delle rocce birmano sono fonte di cibo per le popolazioni locali.

Un team di Oxford ha provato a verificare se si tratti di una strada sostenibile sul lungo periodo, provando a calcolare l’impatto di un allevamento di pitoni (la cui carne, tra parentesi, è ricca di proteine, povera di grassi e pare sappia di pollo) di circa 4.600 esemplari, distribuiti in due diverse fattorie in Thailandia e Vietnam. Gli animali sono stati tenuti in grossi magazzini ben ventilati per simulare la temperatura del loro ambiente naturale, e nutriti a piccoli roditori e supplementi proteici derivanti da scarti agricoli.

 

Meglio di mucche e polli. Con questo regime, i pitoni sono cresciuti quasi mezz’etto al giorno, e ogni 4 grammi di cibo hanno “restituito” un grammo di carne di pitone – un fattore di conversione che li rende più efficienti di altri animali da allevamento. Inoltre, le emissioni di gas serra di questi allevamenti si sono rivelate inferiori a quelle di mucche, maiali e pollame.

Aggiungeteci che ogni pitone femmina può deporre 100 uova all’anno per vent’anni, e capirete perché, anche dal punto di vista numerico, la loro carne è una delle soluzioni più promettenti per i prossimi anni in cui dovremo “inventarci” nuove fonti di cibo.

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