La danza immortale di Colum McCann (che torna in libreria)
A volte la letteratura ha bisogno di un pretesto. La vita di un grande, un pensiero sbagliato, la materializzazione di un disagio, un incubo, un desiderio. Ha bisogno cioè di una tensione che si realizzi nell’atto stesso del raccontare e trovi in quella forma compiuta il suo proprio senso, indipendentemente dall’oggetto (o dal soggetto) del racconto. L’irlandese Colum McCann ne La sua danza, che Feltrinelli ripubblica dopo vent’anni e che solo nella teoria è la biografia di Rudolf Nureyev, fa così. Inventa un caleidoscopio di voci, di finzione anche quando sono vere e vere anche quando sono di finzione, le cala in quei giorni della vita di Nureyev e in quei luoghi (la Russia del comunismo, Parigi e l’Opera, Londra, una New York impazzita di frenesia, Caracas) e le segue fedelmente. Il risultato è un’opera di letteratura magnifica. Diceva (il compianto) Javier Marías: “Riferire l’accaduto è inconcepibile e vano, o piuttosto possibile solo come invenzione” e questo è tanto più vero in questo romanzo di McCann per il quale, su sua stessa ammissione, lui non si è documentato se non sui contesti.
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