'Viaggi nell'antica Roma' ai Fori con la voce di Piero Angela

Torna ai Fori Romani l’iniziativa culturale e al tempo stesso spettacolare dei ‘Viaggi nell’antica Roma’ che fino al 2 ottobre vedranno come protagonisti gli scenari, reali e virtuali, del Foro di Cesare e del Foro di Augusto, che rivivranno attraverso la voce narrante di Piero Angela e la realtà multimediale e virtuale. Gli spettatori potranno godere una rappresentazione emozionante e allo stesso tempo ricca di informazioni dal grande rigore storico e scientifico, per veder ricostruiti due luoghi della Roma imperiale.

I due spettacoli – fruibili in audiocuffia con ascolto in 8 lingue (italiano, inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese e giapponese) – hanno modalità di fruizione differenti. Per il Foro di Augusto sono previste tre repliche ogni sera (durata 40 minuti) mentre per il Foro di Cesare è possibile accedervi ogni 20 minuti (percorso itinerante in quattro tappe, per la durata complessiva di circa 50 minuti, inclusi i tempi di spostamento). Il progetto è promosso da Roma Culture, dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e prodotto da Zetema, ideato da Piero Angela e Paco Lanciano.

Allo spettacolo al Foro di Augusto si assiste stando seduti su tribune allestite lungo la via Alessandrina: attraverso una multiproiezione di luci, immagini, filmati e animazioni, il racconto di Piero Angela si sofferma sulla figura di Augusto, la cui gigantesca statua, alta ben 12 metri, era custodita accanto al tempio dedicato a Marte Ultore. Lo spettacolo all’interno del Foro di Cesare è itinerante: si accede dalla scala situata accanto alla Colonna Traiana e si attraversa poi il Foro di Traiano su una passerella realizzata appositamente. Attraverso la galleria sotterranea dei Fori Imperiali si raggiunge quindi il Foro di Cesare e si prosegue così fino alla Curia Romana.

Il racconto di Piero Angela, accompagnato da ricostruzioni e filmati, parte dalla storia degli scavi realizzati tra il 1924 e il 1932 durante il fascismo, per la costruzione dell’allora Via dell’Impero, oggi Via dei Fori Imperiali, quando un ‘esercito’ di 1.500 muratori, manovali e operai fu mobilitato per radere al suolo un intero quartiere e scavare in profondità tutta l’area fino a raggiungere il livello dell’antica Roma. Quindi si entra nel vivo della storia partendo dai resti del Tempio di Venere. Tra i colonnati rimasti riappaiono le tabernae del tempo, cioè gli uffici e i negozi del Foro. Grazie al racconto di Piero Angela, si potranno conoscere più da vicino le figura di Giulio Cesare e di Ottaviano Augusto.

(di Enzo Bonaiuto)

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Vi racconto la Venere di Milo

La bellezza per antonomasia. La classità per definizione. Il capolavoro scultoreo per eccellenza.Questo (e tanto altro) è la Venere di Milo, l’eccezionale statua greca conservata al Louvre.
È una delle sculture più famose del mondo, un capolavoro di età ellenistica, ma non tutti ne conoscono la storia a luci e ombre e le infinite reinterpretazioni fatte dagli artisti.

Tutto ha inizio l’8 aprile del 1820 quando Yorgos Kentrotas, un contadino greco che abitava sull’isola di Milo, nell’arcipelago delle Cicladi, colpì con la sua pala qualcosa di molto duro.

Stava cercando pietre per rinforzare la recinzione del suo campo quando dal terreno spuntò fuori un busto di marmo pario senza braccia, del tutto inutile per le necessità del contadino.
Il caso volle che si trovasse da quelle parti anche Olivier Voutier, un giovane ufficiale della marina francese appassionato di archeologia, la cui nave Chevrette era ormeggiata sull’isola. L’uomo passeggiava tra i ruderi dell’antico teatro greco, incantato dagli innumerevoli frammenti di statue che emergevano dal terreno. Ma vedendo il contadino, a poca distanza da lui, fermo a osservare qualcosa nella buca che stava scavando, si avvicinò per curiosare.

Ecco come Voutier ricorda quel momento: “Aveva appena scoperto la parte superiore di un statua in cattive condizioni e, non potendo essere utilizzata per la sua costruzione, stava per ricoprirla di macerie. Con la punta di qualche piatto l’ho fatta invece uscire. Non aveva le braccia, il naso e il nodo di i capelli erano spezzati, erano terribilmente sporchi. Tuttavia, a prima vista, si riconosce un pezzo notevole. Ho esortato il mio uomo a cercare l’altra parte. Presto si è imbattuto in essa. Poi ho fatto assemblare la statua. Chi ha visto la Venere di Milo può immaginare il mio stupore!”.Ed ecco come ha disegnato quel ritrovamento.

La scoperta della statua suscitò grande entusiasmo anche nell’ammiraglio Jules Dumont d’Urville che si fece subito avanti per acquistarla. Ma Pierre-Henry Gauttier du Parc, il capitano della Chevrette, si oppose a quella trattativa rifiutandosi di trasportare un manufatto tanto fragile.

A quel punto il contadino pensò bene di cercare un nuovo acquirente in un monaco ortodosso che intendeva offrirla a un funzionario ottomano del sultanato di Costantinopoli. D’Urville allora scrisse immediatamente all’ambasciatore di Francia a Costantinopoli: non poteva lasciarsi sfuggire un pezzo così pregiato! L’ambasciatore acconsentì all’acquisto, anzi diede l’ordine di comprare la scultura a qualsiasi prezzo.

Il suo interesse però non era tanto di tipo artistico, ma smaccatamente politico. Quella statua, un raro esemplare greco originale e non una copia romana, alta poco più di due metri, avrebbe compensato lo smacco subito dalla Francia che, dopo il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva dovuto restituire ai vari stati italiani la Venere Medici, l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte, alcuni dei capolavori classici sottratti con le spoliazioni napoleoniche.
Grazie alla Venere di Milo, per altro, Parigi poteva tornare a competere con Londra – che da alcuni anni si era appropriata dei marmi del Partenone – e con Monaco di Baviera, la cui Gliptoteca conservava i preziosi frontoni provenienti dal tempio di Afaia, sull’isola greca di Egina.
Dopo estenuanti trattative con il monaco e con la comunità dell’isola di Milo i francesi finalmente si aggiudicarono la statua e la imbarcarono alla volta della corte di re Luigi XVIII che nel 1821 ne fece dono al Louvre.

L’azione di propaganda iniziò immediatamente: la statua, inizialmente attribuita a Fidia o a Prassitele (ma oggi datata al 150-125 a.C.) fu esposta al centro di una grande sala del Louvre e i calchi vennero inviati alle Accademie di Belle Arti affinché i giovani studenti potessero copiarla. Doveva diventare a tutti i costi un simbolo universale di bellezza.Per questo si aprì subito il dibattito sulla possibilità di completarla con due nuove braccia, come si usava fare all’epoca. Ma le ipotesi erano contraddittorie. Teneva una mela in mano? Scriveva su una lapide? Si guardava allo specchio?

Alla fine prevalse la decisione di lasciare la statua com’era (a parte l’aggiunta del piede sinistro, successivamente rimosso): la mancanza delle braccia, in fin dei conti, non ne diminuiva né il valore né la bellezza, anzi faceva convergere tutta l’attenzione sul raffinatissimo panneggio, sul busto levigato e su quel volto dall’espressione imperturbabile.

Per altro non era neanche certo che si trattasse di Venere: quell’identificazione era stata fatta da d’Urville e mai più rimessa in discussione. In verità una porzione di basamento originale, misteriosamente scomparso, portava delle iscrizioni collegabili forse alla statua di Poseidone ritrovata nello stesso luogo nel 1877, di cui la figura femminile avrebbe potuto essere la moglie  Anfitrite.

Ma è chiaro che una “Anfitrite di Milo” non avrebbe colpito l’immaginario collettivo come una “Venere di Milo” (che per essere precisi avrebbe dovuto chiamarsi Afrodite, alla greca). E d’altra parte la posa e la composizione somigliavano molto a quelle della Venere di Capua del Museo Archeologico di Napoli (copia romana di un originale greco rinvenuta nel XVIII secolo). Dunque, meglio lasciare tutto com’era…

La vera incoronazione come dea della bellezza arriverà poco tempo dopo, quando gli artisti iniziarono a prendere la Venere di Milo come modello per le loro opere d’arte. Il primo in assoluto è stato Eugène Delacroix: la sua Libertà che guida il popolo del 1830, infatti, si ispira alle Venere di Milo per quel busto nudo, per la gamba sinistra protesa in avanti e per il panneggio della veste.Questo omaggio però non bastò a fare apprezzare quella figura: le braccia robuste, le guance arrossate e i peli sotto le ascelle facevano somigliare la donna a una massaia piuttosto che a una dea!

Del 1841 invece, è questo dipinto intimista del danese Christoffer Wilhelm Eckersberg. È dedicato alla toilette del mattino ma quella schiena con i fianchi cinti dal tessuto è un esplicito riferimento alla Venere di Milo, come si può notare osservando il retro della statua.

Assieme alla fama purtroppo cominciano anche i pericoli. Nel 1870-1871, con l’infuriare a Parigi della guerra franco-prussiana, la Venere di Milo viene imballata in una cassa di legno e conservata in un luogo sicuro.

Al suo rientro a Louvre il curatore del museo iniziò degli studi approfonditi sulla statua scoprendo, tra le tante, che non si è spezzata in seguito a un incidente né è stata tagliata: la Venere è stata realizzata fin dall’inizio unendo due blocchi di marmo.
A partire dagli anni Ottanta viene ritratta più volte nella sala in cui era stata collocata, come presenza divina nella penombra del museo.

Intanto diventa oggetto di studio anche da parte degli artisti più insospettabili, come Cézanne e van Gogh.

La celebrità della scultura è testimoniata pure da alcuni dipinti che ne raffigurano delle miniature in ambienti domestici…

… o nell’atelier di una pittrice.

Ebbe grande diffusione anche il solo torso. Possiamo vederlo sia nello studio di uno scultore che in un soggiorno borghese.

Tutto cambia con l’arrivo del Surrealismo. Dopo cento anni dalla sua scoperta, quell’icona di bellezza, quel frammento di perfezione, perde per la prima volta la sua aura divina e diventa l’oggetto degli esperimenti espressivi più estremi.
Per primo inizia René Magritte con Les menottes de cuivre (Le manette di rame) del 1931. Si tratta di una copia della statua parzialmente ridipinta in rosa e blu, con la testa lasciata in bianco. Il titolo, ideato da André Breton, allude ironicamente all’assenza delle mani. È un’operazione dadaista simile ai baffi sulla Gioconda fatti da Duchamp nel 1919. E tuttavia Magritte ci aveva visto giusto: le statue greche erano colorate in modo da sembrare corpi veri.

Il 1936 è invece l’anno della Venere a cassetti di Salvador Dalì. Riprodotta in infinite varianti, è un’opera che si inoltra nel mondo della bellezza carnale, dell’eros e dei suoi segreti, rappresentati dai cassetti (un simbolo tratto dalla psicanalisi di Freud) aperti sul corpo della statua.

Nello stesso periodo si occupa della scultura anche Man Ray. La sua Venere restaurata del 1936 (un busto senza drappo sui fianchi) e la testa di Venere del 1937 sono una perfetta dimostrazione dello spirito iconoclasta che muoveva dadaisti e surrealisti. Stringere tra corde o catturare in una rete un pezzo di statua significa trattare quei capolavori come oggetti qualsiasi, oltre a suggerire simili fantasie erotiche sul corpo femminile.Ma in fondo non occorre cercare un significato. La testa di Venere dentro una rete da pesca è “bella come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, per usare le parole del poeta Lautréamont tanto care ai Surrealisti.

Tuttavia la dissacrazione della Venere di Milo non è stata un’invenzione di questi artisti. Già a partire dagli anni Dieci ci avevano pensato i pubblicitari a trasformare la dea della bellezza in testimonial più o meno ironico dei nuovi consumi di massa. Dai corn-flakes all’aspirina, dai corsetti alle stilografiche, ogni occasione era buona per accostare il proprio prodotto alla suprema perfezione della dea greca.

Ma nel 1939 la Venere è di nuovo in pericolo. Con l’avanzata delle truppe tedesche verso la Francia occorreva svuotare il Louvre dai suoi capolavori e spostarli in un luogo sicuro. Il direttore Jacques Jaujard chiuse il museo il 25 agosto 1939 (ufficialmente per manutenzione) e organizzò il trasloco di oltre 4000 opere – sia dipinti che sculture – chiudendole dentro 1862 casse di legno trasportate da 203 camion diretti verso il castello di Chambord.

Il 16 agosto 1940 i nazisti entrarono al Louvre. Con grande disappunto scoprirono che era completamente vuoto. Ma furono lieti di trovare la Venere di Milo ancora al suo posto. Quello che non sapevano è che la statua che stavano ammirando era una volgare copia in gesso.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Venere, quella vera, torna al suo posto. E in poco tempo ritorna al centro dell’interesse degli artisti, in quella sorta di continuo ritorno al passato, specialmente quello classico, che caratterizza l’arte occidentale.

Nel 1962 se ne occupa Niki de Saint Phalle con una delle sue azioni artistiche da poco inaugurate: realizza una copia cava della Venere, fissa al suo interno dei sacchetti di vernice e poi la colpisce a distanza con un fucile. La statua a quel punto inizia a ricoprirsi di colore, ma in un modo che non può essere controllato dall’artista. È un attacco all’arte antica ma contemporaneamente è una rigenerazione, nata da un gesto di estrema violenza.

Intanto i traslochi non sono finiti. Nel 1964 la statua viene spedita addirittura a Tokyo, in occasione delle Olimpiadi. Ma il lungo viaggio di 33 giorni sul transatlantico francese Vietnam l’ha danneggiata: quattro frammenti del panneggio, all’altezza dello stinco sinistro, si sono staccati. Tre di questi erano pezzi in gesso di un vecchio restauro mentre il quarto era una scheggia di marmo, già staccata dalla statua all’atto del ritrovamento nel 1820.
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Dalì tornerà di nuovo sul tema della Venere negli anni Settanta, evidentemente ossessionato da questo simbolo così potente. In Torero allucinogeno la Venere di Milo si moltiplica in diverse posizioni e varie dimensioni dentro una delirante sovrapposizione di immagini. La dea diventa archetipo femminile inafferrabile, a tratti spaventoso. La sua figura ripetuta dà forma anche al volto del torero, in un gioco di interscambio tra figura e sfondo.

Negli stessi anni Dalì torna anche alla versione scultorea di Venere, ma abbandona i cassetti e inizia a mescolare le parti del volto con la Testa otorinologica di Venere. Naso e orecchio sono scambiati di posto: forse perché ‘sentiamo’ con entrambi?

Poi è stata la volta di Arman che, usando il suo linguaggio basato sulla trasformazione e accumulazione di oggetti comuni, ha iniziato ad affettare, frammentare, scomporre e riassemblare la Venere di Milo. Ma per quanto la si possa fare a pezzi, lei rimane sempre riconoscibilissima.

Quella posa sinuosa con le braccia mozzate si riconosce pure in silhouette, come nello specchio Venere disegnato dall’architetto Carlo Mollino nel lontano 1938 per Casa Miller a Torino (ma ancora in produzione)…

… oppure nella scultura sezionata di César del 1984.

Tra le versioni più recenti ci sono quelle di Jim Dine degli anni Ottanta e Novanta. Le sue Veneri sembrano regredire alla fase di blocco appena sbozzato: mancano della testa e appaiono spigolose e ruvide. Ma il colore, in tinta unita o a chiazze vivaci, rende questi oggetti quasi astratti, specialmente nelle dimensioni colossali che in alcuni casi assumono. Quando queste statue sono disposte in gruppi di tre la classicità raddoppia, attraverso un evidente richiamo al tema delle Tre grazie.

A fronte di tutto questo, di una passione sfrenata verso una dea venuta da una sperduta isola greca che pare non vedere mai flessioni, si può ben dire che l’azione di propaganda messa in atto dalla Francia abbia funzionato davvero alla grande! E però, per trasformare una statua in un’icona, qualcosa di speciale ci dev’essere.

Quella donna di marmo ci guarda da millenni, indifferente al succedersi dei giorni e delle stagioni, alle generazioni umane che, passando, la guardano negli occhi. Aspetta paziente senza aspettare nulla: la sua imperfetta perfezione le basterà per sempre.

Storia romana per alunni del serale

Viste le lacune di molti e le difficoltà ad affrontare programmi completi con gli alunni del serale, ho pensato di sintetizzare in un unico file tutta la storia romana. Un’impresa ardua, ma ci ho provato! Molto spesso gli alunni dei percorsi serali sono persone che hanno frequentato i primi anni di scuola superiore e poi hanno interrotto gli studi; quando tornano a scuola sono passati anni, in alcuni casi anche decenni, per cui ricordarsi la storia antica è veramente difficile. Si trovano, così, a dover affrontare direttamente lo studio della storia medievale, se non addirittura quella contemporanea, senza ricordare o senza aver mai saputo nulla di quella precedente. Se consideriamo il fatto che la nostra storia è l’evoluzione di quella romana e che la nostra lingua e la nostra letteratura sono collegate alla latinità, allora è proprio un peccato restare con questo vuoto di conoscenza. Per questo motivo ho pensato di sintetizzare in poche pagine tutta la storia romana, sperando di lasciare qualche traccia in chi tempo per approfondire ne ha poco. Ovviamente è bene aiutare la comprensione del testo e accompagnare la lettura dello stesso con interruzioni verbali atte a puntualizzare ed esplicare argomenti accennati brevemente, in modo da fornire un quadro chiaro di oltre venti secoli di storia.

Tratti salienti di Storia Romana

La nascita di Roma fu la
conseguenza di un lungo processo, cui contribuirono non solo i latini, ma anche
molte altre popolazioni, tra cui gli etruschi, i sabini e i greci. Il
popolamento dell’Italia avviene attraverso varie sovrapposizioni di
popoli.

La fondazione di Roma è fissata
alla metà dell’VIII sec. a. C. , in quel periodo l’Italia
presenta una serie di popoli: etruschi, greci, fenici, umbri, siculi, sicani,
latini, ecc. E’ in un’ Italia dal popolamento eterogeneo, ma dominate da due
culture avanzate (etrusca e greca) che nasce Roma. Nei primi anni sono numerose
le lotte interne: Roma si espande sottomettendo i popoli che la contrastano,
primo tra tutti quello dei latini da cui i romani stessi discendono.

La leggenda della fondazione di Roma

Secondo la tradizione, Roma sarebbe stata fondata il 21 aprile del 753 a. C. I romani, diventati i padroni del mondo, attribuivano alla loro città origini divine. Partendo da antiche leggende, il poeta Virgilio ( 70-19 a. C.) ne raccontò la storia nel poema Eneide. Enea, figlio di Venere, fuggito da Troia in fiamme col vecchio padre Anchise e il figlio Ascanio chiamato anche Iulo, giunse, guidato dagli dei, presso la foce del Tevere. Accolto dal re Latino, sposò la figlia mentre suo figlio Iulo fondava Albalonga (sui colli Albani, nel Lazio). Qui finisce l’Eneide, ma il racconto continua, tramandato da grandi storici di Roma (Tito Livio il più autorevole e il greco Dionigi di Alicarnasso), che hanno raccolto altre leggende. Passarono gli anni. Re di Albalonga divenne Numitore, ma il fratello Amulio lo spodestò e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a diventare sacerdotessa della dea Vesta rinunciando quindi al matrimonio. Tuttavia il dio Marte, invaghitosi di lei, si unì alla fanciulla e nacquero due figli, Romolo e Remo. Temendo di perdere il trono Amulio li fece mettere in una cesta e gettare nel Tevere, ma la cesta, protetta dagli dei, s’impigliò nei rami di un fico e una lupa li allattò, consentendo loro di sopravvivere.

In realtà, alcuni storici, sostengono che Romolo altri non fosse che un pastore a capo di un gruppo dedito al brigantaggio.

Dalla monarchia alla Repubblica a Roma

Dal latino Senatvs PopvlvsQve Romanvs – il Senato e il Popolo Romano = il Senato e il popolo, cioè le due classi dei patrizi e dei plebei che erano a fondamento dello Stato romano.

Durante il periodo monarchico l’organizzazione politica è basata sulla monarchia costituzionale elettiva: il potere diviso tra re, senato e comizi curiati (assemblee di cittadini romani). Romolo (romano) fu il primo dei 7 re di Roma, gli altri furono: Numa Pompilio (sabino), Tullo Ostilio (romano),  Anco Marzio (sabino), Tarquino Prisco (etrusco), Servio Tullio (etrusco), Tarquinio il Superbo (etrusco).

La cacciata dell’ultimo re espone Roma
alle mire dei popoli vicini, come Volsci, Sabini e la Confederazione latina.

La
rivolta dei patrizi, dei popoli italici, degli abitanti delle colonie della
Magna Grecia sono le ragioni che determinano l’avvento della repubblica.

I
romani si troveranno ad affrontare guerre contro i sanniti , guerre contro i
greci e contro i cartaginesi per governare in Italia, nell’Asia Minore e
nell’Africa del Nord.

Nell’VIII secolo la Grecia estendeva la sua
influenza nell’Italia meridionale; Magna Grecia viene denominata l’area
geografica colonizzata.

Dal 509 a.C. i patrizi decisero di
istituire un nuovo tipo di governo in cui le decisioni venissero prese non da
un re, ma da tutti gli abitanti di Roma: tale governo fu chiamato res
publica, ossia “cosa pubblica”. Al posto del re furono eletti due consoli,
che rimanevano in carica per un solo anno. Accanto a loro venivano eletti,
sempre ogni anno, altri magistrati che si occupavano di amministrare la città e
il suo territorio. In pratica però nei primi anni della repubblica il potere
rimase nelle mani dei patrizi, gli unici che potevano essere eletti consoli e
diventare magistrati o senatori. I plebei, ossia tutto il resto
della popolazione non appartenente alle famiglie dei patrizi, erano esclusi da
qualsiasi decisione politica.

I plebei volevano però partecipare alla vita
politica. Così nel 494 a.C. attuarono una sorta di sciopero: si riunirono su un
colle fuori dalle mura di Roma (secessione
sull’Aventino e sul monte Sacro), non svolgendo più alcun lavoro e non
partecipando al servizio militare. Sarebbero ritornati alla vita normale solo
se i patrizi avessero loro concesso di eleggere i propri rappresentanti
politici, i tribuni della plebe, e di riunirsi in assemblee formate
da soli plebei, i concili della plebe. I patrizi furono costretti ad
accettare le loro richieste. Dalla metà del V secolo i plebei ottennero altre
concessioni che permisero progressivamente la loro piena partecipazione alla
vita politica. Il conflitto tra patrizi e plebei finì nel 367 a.C.,
quando una legge stabilì che uno dei due consoli dovesse essere plebeo
(leggi licinie sestie). In questo
modo i plebei riuscirono ad avere libero accesso anche al Senato, dato che i
consoli, una volta terminato il loro anno di carica vi entravano di diritto.
Ricordiamo, però, che per accedere al consolato servivano mezzi economici che
solo una piccola parte della plebe possedeva.

Nel I  secolo
a.C. fu eletto console Gaio Mario, a
lui si oppose Silla, portavoce delle
idee della nobiltà.

La guerra civile tra Mario e Silla e la dittatura di quest’ultimo avevano dimostrato che le istituzioni repubblicane (Senato, magistrature e comizi) avevano perso gran parte del loro valore e riuscivano a imporsi, sulla scena politica, generali che potevano contare sull’appoggio del proprio esercito. Morti Mario e Silla, infatti, fu la volta di altri tre generali: Marco Licinio Crasso, Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare.

Fattosi valere come generale di Silla nella guerra
civile contro Mario, Pompeo venne eletto console nel 70 a.C. insieme con
Crasso.

Il Senato preoccupato che Pompeo, divenuto troppo
potente, seguisse i passi di Silla e instaurasse una dittatura, non volle
riconoscere i provvedimenti da lui presi in Oriente e rifiutò di concedere le
terre che aveva promesso come premio ai suoi soldati. Pompeo, per ottenere
quanto gli spettava, cercò quindi l’appoggio degli uomini allora più influenti
a Roma: Marco Licinio Crasso e Caio Giulio Cesare,
un patrizio che era diventato il capo dei popolari
(sostenendo gli interessi dei plebei per ottenere l’allargamento
delle basi del potere favorendo allo stesso tempo i grandi commercianti, i
finanzieri e i cavalieri; a questa fazione si opponevano gli ottimati, “i migliori”: ristretto
gruppo di famiglie che rappresentavano la nobilitas,
alla quale facevano parte le antiche famiglie patrizie e quelle plebee più in
vista. Pompeo sosteneva questa fazione).

Nel 60 a.C. i tre strinsero un patto privato, noto
con il nome di primo triumvirato, in quanto indicava l’unione di tre (tres) uomini (viri)
a capo del governo.

La
guerra civile tra Cesare e Pompeo

Nel 53 a.C. Crasso era morto e si era quindi rotto
il triumvirato. Cesare, finita la sua campagna militare in Gallia, voleva
tornare a Roma e candidarsi al consolato. Il Senato, temendo che
Cesare portasse al potere i popolari, preferì sostenere Pompeo e lo elesse
unico console. Ordinò poi a Cesare di fare rientro a Roma come privato
cittadino, sciogliendo il suo esercito. Cesare rifiutò. Nel 49 a.C. si diresse
verso Roma e a capo delle sue truppe attraversò il fiume Rubicone,
che segnava il confine del territorio sacro di Roma. Era una vera e propria
dichiarazione di guerra contro il Senato e Pompeo. Questi, consapevole della
forza di Cesare, preferì lasciare Roma e fuggire prima nel Sud Italia e di lì
in Oriente, per avere il tempo di radunare un esercito. Cesare lo raggiunse e
lo affrontò a Farsalo, in Grecia. I pompeiani furono sconfitti e
Pompeo fuggì in Egitto, dove venne ucciso dal re Tolomeo XIII, che credeva così di farsi amico Cesare. Questi,
invece, lo punì per il suo atto, lo depose dal trono e consegnò il regno alla
sorella Cleopatra.

Nonostante la sua politica mirasse a non scontentare
nessuno, una parte della classe senatoria non accettò il suo enorme potere,
considerandolo un pericolo per la repubblica. Così alle Idi di marzo del 44 a.C.,
mentre entrava in Senato, Cesare fu ucciso a pugnalate da un gruppo di
senatori.

Nel calendario romano le Idi erano
il tredicesimo giorno di ogni mese, ad eccezione dei mesi di marzo, maggio,
luglio e ottobre nei quali cadevano il quindicesimo giorno.

I senatori che avevano ucciso Cesare avrebbero
voluto il ritorno della repubblica, ma troppe cose erano ormai
cambiate nella società e nell’organizzazione politica di Roma. Cesare aveva
nominato come erede nel suo testamento il figlio adottivo (nonché suo
pronipote) Gaio Ottavio. Questi prese il nome del padre Gaio Giulio
Cesare Ottaviano e, deciso prima di tutto a vendicare la morte del
padre, si alleò con Marco Antonio, luogotenente di Cesare, e con un
altro generale, Marco Emilio Lepido.  Nel 43 a.C. i tre formarono il secondo triumvirato.

Marco Antonio si innamorò di Cleopatra, la sposò e
instaurò una monarchia di tipo orientale. La popolazione romana e
il Senato iniziarono a temere che Antonio volesse costituire un regno
indipendente, sottraendo a Roma le province orientali. Ottaviano capì che era
il momento di rompere il triumvirato per ottenere tutto il potere e, messo da
parte Lepido, dichiarò Antonio nemico di Roma. Radunò quindi un esercito,
raggiunse l’Egitto e si scontrò con Antonio ad Azio, nel 31 a.C. L’esercito egiziano,
nonostante fosse più numeroso, venne sconfitto. Antonio e Cleopatra fuggirono,
ma, inseguiti da Ottaviano, si tolsero la vita. Ottaviano rimaneva ormai
l’unico incontrastato dominatore di Roma. Con Cleopatra finì l’ultima delle
grandi monarchie ellenistiche, nate dalla spartizione dell’immenso impero di
Alessandro Magno.

L’Impero
a Roma

Tredici anni dopo la morte di Cesare, Ottaviano si
ritrovava unico erede del potere del padre adottivo e doveva scegliere quale
tipo di governo instaurare a Roma: la dittatura l’avrebbe portato
all’insuccesso, così come era capitato a Cesare, e anche il modello di monarca
orientale pensato da Marco Antonio non era ben visto dai Romani. Capì che
l’unico modo per non fallire era riproporre un governo basato sulle vecchie
istituzioni repubblicane, in modo da ottenere il consenso di tutte le
classi sociali. Il primo titolo che si fece attribuire fu infatti quello
di restitutor rei publicae, colui che restaura la repubblica.
In realtà ripristinò i comizi e i concili della plebe che, come in età
repubblicana, eleggevano tutti i magistrati. Le magistrature, però, diventarono
solo delle cariche onorifiche e persero del tutto i loro
poteri, che passarono nelle mani di Ottaviano. La scelta politica di Ottaviano
metteva quindi definitivamente fine alla repubblica, ma, per come
veniva proposta, appariva ai Romani una completa restaurazione delle
istituzioni repubblicane. Nel 27 a.C. il Senato attribuì a Ottaviano il titolo
di Augusto (cioè “degno di venerazione”). Con Ottaviano
comincia di fatto l’epoca imperiale.

Ottaviano abbellì Roma con nuovi templi e monumenti.
Uno tra i più importanti fu sicuramente l’Ara pacis, l’Altare
della pace, che Ottaviano fece costruire proprio al centro del Campo di Marte,
la piazza dedicata al dio della guerra. Con quest’opera ben visibile a tutti i
cittadini, Augusto si presentava come l’iniziatore di una nuova era di
pace dopo tanti anni di guerre.

Il sistema politico creato da Augusto rimase
invariato fino all’inizio del III secolo. Questo lungo periodo di stabilità
assicurò a tutta la popolazione dell’Impero pace e benessere. Un aspetto che,
però, Ottaviano non aveva curato e che diventò spesso motivo di tensione e di
conflitto era la successione. Come scegliere il successore di un’eredità così
importante? Augusto aveva capito che la successione dinastica,
ossia l’eredità di padre in figlio o tra membri della stessa famiglia, sarebbe
stato l’unico modo per evitare forti contrasti e garantire stabilità. Così dopo
di lui si succedettero imperatori della sua stessa famiglia, la dinastia
giulio-claudia, fino al 68 d.C., quando Nerone, l’ultimo
imperatore della dinastia, morì. La successione dinastica non rimase però una
regola fissa. Dopo un’altra dinastia, la dinastia flavia (69-96),
in cui l’Impero passò dal padre Vespasiano ai suoi due
figli, Tito e Domiziano, venne inaugurato, sotto
la spinta del Senato, che sperava così di controllare maggiormente la scelta
degli imperatori, il sistema dell’eredità per adozione: ogni
imperatore prima di morire aveva il compito di scegliere (e quindi di
“adottare”) il suo successore.

Durante l’Impero di Vespasiano fu progettato e
costruito l’Anfiteatro Flavio,
inaugurato nell’80 dal figlio Tito. Questo grandioso monumento, noto con il
nome di Colosseo per le sue
dimensioni enormi, poteva contenere 50 000 spettatori. Era destinato a ospitare
spettacoli per il popolo, come le lotte tra i gladiatori e le battaglie navali,
per le quali si riempiva di acqua il centro dell’anfiteatro.

Successore di Vespasiano fu il figlio Tito che
governò soli tre anni (morì per una forte febbre) con la stessa moderazione del
padre e si trovò costretto a fronteggiare disastri naturali quali l’incendio di
Roma e l’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei, Ercolano e
Stabia; domò una grave rivolta a Gerusalemme a seguito della
quale fu distrutto il tempio e iniziò la diaspora degli Ebrei. 

Alla fine del III secolo d.C., dopo un lungo periodo
di crisi, salì al potere Diocleziano, che cercò di porre lo stato
sotto il suo totale controllo.

Convinto che i cristiani
fossero un pericolo per il bene dello Stato, nel 303 scatenò contro di loro una
lunga e sanguinosa persecuzione: furono distrutti i templi,
confiscati i beni delle chiese, bruciati i libri sacri e molti subirono la
condanna a morte.

Nel 312, alla fine di  lotte sanguinose, prese il potere Costantino.
Il primo provvedimento del nuovo imperatore fu l’editto di Milano del 313 d.
C., conosciuto anche con il nome di editto di tolleranza,
perché concedeva ai cristiani la libertà di praticare la loro fede. Il
cristianesimo fu posto sullo stesso piano del paganesimo e di tutte le altre
religioni dell’Impero. Tuttavia Costantino favorì in ogni modo i cristiani:
concesse loro privilegi, diede ai vescovi incarichi importanti nella cura
dell’amministrazione e della giustizia, dichiarò la domenica giorno di festa
obbligatorio e fece costruire numerose chiese. L’imperatore si era reso conto
che il cristianesimo era ormai molto diffuso, soprattutto nelle città, e
pensava che la fede in un unico Dio e una religione di grande forza potessero
rendere lo Stato più forte e stabile. Grazie alla libertà di culto il cristianesimo
si diffuse anche in zone molto lontane dell’Impero.

Alla morte di Diocleziano, inizialmente, l’impero
aveva due padroni, Costantino in Occidente e Licinio
in Oriente. Costantino aveva ottenuto la vittoria decisiva contro il
rivale Massenzio alle porte di Roma nel 312 d. C. , anno in
cui fece costruire l’arco di Costantino per commemorare la vittoria. Nel 324
d. C. riuscì a unificare l’impero ed essere unico
imperatore. La capitale non fu portata a Roma, ma fu costruita una nuova città
chiamata Costantinopoli che divenne la capitale; politica,
cultura ed economia gravitarono così a Oriente.

Negli anni successivi alla morte di Costantino il
numero dei cristiani aumentò rapidamente finché il cristianesimo divenne
la religione più diffusa tra gli abitanti delle città:
ovunque, soprattutto nelle regioni orientali dell’Impero, si formarono comunità
cristiane molto ben organizzate sotto la guida di un vescovo. La vittoria
definitiva del cristianesimo arrivò nel 379 d.C., quando divenne
imperatore Teodosio. Egli pensava che il cristianesimo e i vescovi
fossero un valido sostegno per rafforzare la propria autorità; per questo
motivo, con l’editto di Tessalonica del 380 d.C., stabilì che il cristianesimo
fosse la sola religione ammessa
nell’Impero: venivano così vietate tutte le altre religioni e gli antichi
riti pagani, definiti «insani e dementi». Era la fine del paganesimo.

La
divisione dell’Impero romano e il crollo dell’Impero romano d’Occidente

Alla morte di Teodosio, l’Impero romano fu diviso in
due: l’Impero romano d’Oriente e l’Impero romano d’Occidente. Soprattutto
quest’ultimo fu preso d’assalto dai popoli germanici (Franchi, Angli e Sassoni,
Vandali, Burgundi, Visigoti e Unni) che in alcune zone dell’Impero arrivarono a
formare dei veri e propri insediamenti.

Tra il 406 e il 407 d.C. numerose tribù
germaniche, spinte dal popolo degli Unni, varcarono il Reno e
si riversarono in Occidente alla ricerca di nuove terre da abitare. Ormai
caduto in una crisi profonda, l’Impero d’Occidente non si risollevò più.
Nel 476 il generale di stirpe germanica Odoacre,
comandante della guardia imperiale in Italia, fu acclamato re dai soldati e
depose l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo. Questa data segna
il crollo definitivo dell’Impero romano d’Occidente. Le invasioni barbariche determinarono,
così, la fine dell’Impero romano d’Occidente!

Da questo momento iniziano a formarsi i regni
romano-barbarici.

In Italia il re
degli ostrogoti venne, con il sostegno dell’imperatore d’Oriente, a
scacciare Odoacre (493). Teodorico era cresciuto nella corte
romana ed era grande ammiratore della civiltà imperiale. Non volle che goti e
romani si mescolassero, proibendo i matrimoni misti, ed ebbe cura di far vivere
pacificamente i due popoli, ciascuno con le proprie leggi. Lasciò ai romani l’amministrazione del regno
e riservò ai goti la difesa militare. La sede del re
ostrogoto era Ravenna che si
arricchì di monumenti, tra cui il Mausoleo
(tomba di Teodorico) , oggi patrimonio
mondiale dell’Umanità.

Alla morte di Teodorico in Europa troviamo in Oriente l’imperatore Giustino.
Suo successore, nel 527 d. C., fu il nipote, di bassa estrazione sociale, Giustiniano.
Il suo sogno è la restaurazione imperiale. Tale obiettivo si scontra
inevitabilmente con i goti in Italia, al termine di un continuo susseguirsi di
battaglie che frastagliano l’intera Europa troveremo una Roma completamente
distrutta e spopolata.

Giustiniano non seppe comprendere come, da un punto
di vista economico, l’impero si reggesse sull’Asia e sul Medio-Oriente,
piuttosto che sull’Italia. Alla sua morte il regno era parecchio indebolito.

Lasciò ai posteri la più completa e coerente
raccolta di diritto romana, il Codice, che trovò nell’Impero
d’Oriente e nell’Italia meridionale (sottoposta ai bizantini) una chiara
affermazione.

L’Impero romano d’Occidente era oramai crollato
sotto le spinte dei barbari, quello d’Oriente – l’impero bizantino – rimaneva ricco e forte. Costantinopoli, la capitale,
era la città più ricca e grande del Mediterraneo.

Distacco
tra Oriente e Occidente

Culturalmente tra bizantini e romani c’era un’enorme
distacco: i bizantini parlavano e scrivevano in greco, lingua che
l’Europa occidentale aveva completamente dimenticato. Inoltre, i bizantini si
consideravano gli unici continuatori della civiltà romana.

In campo religioso, nell’VIII secolo, i
vescovi di Roma si opposero alla distruzione delle sacre icone (immagini
sacre solitamente dipinte su tavola), ordinata dagli imperatori di
Costantinopoli che consideravano superstizioso il culto delle immagini. Questo
è l’inizio della rottura che avverrà tra le due Chiese nell’XI secolo.

L’Impero romano d’Oriente, separatosi
dall’occidente dopo la morte di Teodosio I nel 395 d.c. dovrebbe segnare la
fine dell’impero “romano” per sostituirlo con il termine
“bizantino”, da Bisanzio, l’antico nome della capitale Costantinopoli,
oggi Istambul.

L’Impero
bizantino, tra molte lotte, terminò nel 1453 con la conquista di
Costantinopoli da parte dei Turchi ottomani guidati da Maometto II. Non fu
solo un cambiamento di dominatori ma un cambiamento di civiltà, ovvero una
retrocessione di civiltà.

                                                                                                                                 Prof.ssa E. Gurrieri

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