APPARATO DIGERENTE

QUAL È LA SUA FUNZIONE?

COMPIE LA DIGESTIONE, CIOÈ TRASFORMA IL CIBO IN SOSTANZE NUTRITIVE.

QUALI SONO LE SOSTANZE NUTRITIVE?

PROTEINE: IN CARNE, PESCE, SOIA, FAGIOLI…

HANNO UNA FUNZIONE COSTRUTTIVA, SONO NECESSARIE PER COSTRUIRE E RIPARARE PARTI DELLA CELLULA.

CARBOIDRATI: IN PANE, PASTA, PATATE, FRUTTA…

GRASSI: IN BURRO, OLIO, FRUTTA SECCA…

HANNO UNA FUNZIONE ENERGETICA PERCHÉ FORNISCONO GRANDI QUANTITÀ DI ENERGIA

VITAMINE: IN FRUTTA, VERDURE…

SALI MINERALI: IN PESCE, UOVA, FORMAGGIO…

HANNO UNA FUNZIONE REGOLATIVA PERCHÉ RENDONO POSSIBILI I PROCESSI CHE AVVENGONO NELLA CELLULA E

HANNO UNA FUNZIONE PROTETTIVA PERCHÉ PROTEGGONO DA INFEZIONI E MALATTIE.

FIBRE: IN FRUTTA, VERDURE E CIBI INTEGRALISONO SOSTANZE INDIGERIBILI UTILI ALL’INTESTINO.

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Continua la lettura su: https://maestramile.altervista.org/apparato-digerente-3/ Autore del post: Maestra Mile Maestra Mile Fonte: https://maestramile.altervista.org/

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Meglio il cibo cotto o crudo?

Sushi o frittura di mare? Una tartàre ben condita o una bistecca alla fiorentina? Le mode culinarie offrono pane per i denti sia degli amanti del crudo a tutti i costi, sia di chi cuocerebbe a fuoco vivo qualsiasi cibo. Ma viene da chiedersi: che cosa è meglio per l’organismo? Mangiare tutto crudo, perché l’uomo primitivo dalla salute di ferro faceva così (o almeno, così favoleggiano i fautori del crudismo), oppure sfruttare il cucinare a oltranza, per rendere più digeribili tanti alimenti? La scienza aiuta a dare qualche risposta.

In teoria, l’uomo può mangiare cibi crudi (tranne i funghi)

Sul piano teorico «l’essere umano può mangiare qualsiasi cibo senza che debba essere per forza cotto, perché l’organismo è attrezzato per farlo», specifica Enzo Spisni, direttore del Laboratorio di fisiologia traslazionale e nutrizione dell’Università di Bologna. «Perfino i legumi, che sono al limite della commestibilità, possono essere mangiati crudi e lo stesso vale per tuberi come le patate: in queste solanacee ci sono sostanze tossiche che la cottura neutralizza, ma se mangiassimo pezzetti piccoli di una patata non germogliata non correremmo grossi rischi. L’unico cibo in cui il consumo a crudo alza parecchio l’asticella del pericolo sono i funghi: infatti perfino i porcini contengono piccole quantità di molecole tossiche, che la cottura di solito rende innocue». Posto che con i funghi non si scherza, con il resto degli alimenti non ci sono impedimenti e potremmo fare a meno della cottura.

Inventando la cottura dei cibi, l’uomo primitivo si è evoluto prima e meglio

La capacità di controllare il fuoco però è stata decisiva nella storia dell’uomo, e non per caso: il fuoco è stato usato per cucinare per la prima volta circa 780.000 anni fa, come ha documentato di recente Irit Zohar dell’Università di Tel Aviv (Israele), trovando denti di pesce carbonizzati in falò primitivi di un sito archeologico in Giordania. La scoperta del fuoco ha coinciso con uno dei momenti più importanti nell’evoluzione umana. Fino a poco tempo fa si pensava che i primi pasti cotti risalissero a circa 170.000 anni fa; la ricerca di Zohar invece ha datato la nascita della cucina a ridosso del periodo in cui l’uomo è diventato più alto, grosso e soprattutto ha sviluppato un cervello più grande, avviando la trasformazione da Homo erectus a Homo sapiens.

Poter cucinare la carne, il pesce e i vegetali infatti li ha resi più digeribili e sicuri, migliorando l’efficienza dei pasti, fornendo più calorie con minor sforzo digestivo e metabolico e consentendo così all’umanità di sviluppare al meglio fisico e cervello.

È la teoria dell’antropologo e primatologo inglese Richard Wrangham, che nel suo libro L’intelligenza del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo (Bollati Boringhieri) indica proprio nella capacità di cuocere il cibo l’elemento che ci ha cambiato più profondamente rispetto agli altri animali. Potendo passare meno tempo a masticare e digerire alimenti crudi, abbiamo potuto sviluppare fisico e cervello ma anche dedicarci ad altro, evolvendo il pensiero e lo stile di vita.

Cuocere le verdure: i pro e i contro

Ma oggi che si può scegliere fra cibo cotto e crudo senza che ci siano ripercussioni sulla taglia del cervello, che cosa dovrebbe guidarci nella scelta? A livello dei nutrienti qualcosa cambia, come spiega Spisni: «Con la cottura, per esempio, la fibra dei vegetali si concentra molto: pensiamo a quanto rimpiccioliscono cavoli e spinaci quando li cuciniamo rispetto a quando sono crudi. Cuocere le verdure, quindi, ci aiuta a introdurre la giusta quantità di fibre, che spesso nelle nostre diete scarseggiano, senza dover mangiare un campo di spinaci per riuscirci.

Anche il contenuto di vitamine è differente nei vegetali cotti e crudi perché alcune, soprattutto quelle del gruppo B come le vitamina B1 e B5, sono sensibili alla temperatura e molte, per esempio le vitamina C, E, K B12 e i carotenoidi, lo sono all’ossidazione: temperatura e ossidazione aumentano con la cottura, perciò il contenuto di queste vitamine si riduce nelle verdure cotte. L’altro problema è il dilavamento, ovvero il fenomeno per cui nutrienti come vitamine e minerali (stabili alle alte temperature) si disperdono nell’acqua di cottura. Vi si può però ovviare cuocendo i cibi al vapore».

Le vitamine delle carote e dei peperoni

Tutto ciò non significa che mangiare i vegetali crudi sia una scelta obbligata: uno studio dell’Istituto di scienze nutrizionali dell’università tedesca di Giessen, per esempio, ha dimostrato che nei crudisti i livelli di vitamina A e di beta-carotene sono analoghi a quelli di chi mangia anche vegetali cotti, ma sono più scarse le quantità dell’antiossidante licopene, un pigmento rosso abbondante in prodotti come pomodori e peperoni. La cottura dei pomodori, spezzando le pareti delle cellule vegetali, lo renderebbe infatti più disponibile. Qualcosa di simile accadrebbe con il beta-carotene nelle carote cotte (dove però pare ridursi il contenuto di polifenoli). I pomodori e i peperoni, per giunta, sono solanacee come le melanzane e le patate, e contengono perciò molecole tossiche che si inattivano con la cottura.

Fanno meglio i pomodori crudi o cotti?

Dobbiamo quindi abbandonare definitivamente l’insalata di pomodori a favore della salsa? «No, non occorre farsene un cruccio, basta alternare pomodoro cotto e crudo», risponde Spisni. «Esistono diete che consigliano di evitare le solanacee, ma con la moderazione e l’alternanza dei metodi di consumo non danno problemi; alcune poi, come melanzane e patate, è difficile che vengano mangiate crude». L’emblema del fatto che con i vegetali non bisogna vedere la questione in maniera troppo rigida sono forse i broccoli, che da crudi hanno livelli più elevati di sulforafano, una molecola che blocca la proliferazione tumorale, ma da cotti si arricchiscono di indolo, un composto che riesce a uccidere le cellule precancerose. Alla fine insomma quel che conta è mangiare frutta e verdura in abbondanza, scegliendo di cuocerle o meno a seconda di come ci piacciono di più perché così sarà più probabile consumarne quantità maggiori.

Intossicazioni alimentari: quali cibi rischiano di essere contaminati?

La faccenda si complica semmai tenendo conto del rischio di intossicazioni alimentari connesso ai cibi crudi, soprattutto carne, pesce e altri prodotti animali come latte e uova. In questi casi la probabilità che siano contaminati da batteri o germi patogeni non è così remota. Una recente ricerca di Hyejeong Lee, del Dipartimento di biotecnologia e scienze alimentari della Università Norvegese di Scienza e Tecnologia, ha dimostrato che nel pesce crudo o affumicato, oltre al batterio Listeria monocytogenes (che può contaminare il sushi), si trovano parecchi ceppi di batteri Aeromonas, anch’essi patogeni. Non solo, alcune specie di Aeromonas sono particolarmente efficienti nel trasmettere ad altri batteri la resistenza agli antibiotici. Perciò l’abitudine a mangiare pesce crudo, oltre a esporre a qualche poco piacevole sintomo gastrointestinale, potrebbe contribuire a diffondere batteri resistenti alle terapie. Non va meglio con la carne: uno studio dell’Istituto Federale per la Valutazione dei Rischi tedesco ha richiamato l’attenzione su fondute e bourguignonne, perché la carne in genere viene maneggiata cruda dai commensali, prima della cottura in olio. Gli autori raccomandano di assicurarsi che la carne raggiunga in ogni suo punto i 70 °C per almeno due minuti, per essere certi di eliminare i batteri del genere Campylobacter, che possono contaminarla.

Attenzione a sushi e tartare. Ma anche a uova e latte “genuini”

Dobbiamo allora dire addio a sushi e tartare? «Se il pesce e la carne sono stati ben conservati, abbattuti, macellati e si può avere la certezza che non siano contaminati, il consumo da crudi non è un problema», spiega Spisni.

«Anzi, il pesce crudo per esempio è una delle poche fonti alimentari di vitamina D ed è ricco di acidi grassi a lunga catena che sono molto sensibili alla temperatura elevata raggiunta in cottura. Tuttavia, non è facile assicurarsi che non ci sia alcun rischio microbiologico, e lo stesso vale per le uova: quelle del supermercato possono essere considerate un po’ più sicure perché più controllate rispetto a quelle di un pollaio casalingo, che è meglio mangiare cotte perché il guscio può ospitare batteri fecali in quantità. Il latte non pastorizzato poi è un vero “brodo di coltura” per batteri: non può essere sterile e occorre sperare che i germi presenti non siano patogeni o siano troppo pochi per dare problemi.

Chi ama il crudo a oltranza deve essere consapevole di esporsi a potenziali rischi, peraltro in cambio di vantaggi per la salute che non sono mai stati dimostrati: la probabilità di malattie metaboliche, cardiovascolari o di tumori non viene intaccata se si sceglie un’alimentazione crudista, senza contare che questi regimi spesso sono del tutto sbilanciati», conclude l’esperto.

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11 cibi velenosi… che mangiamo abitualmente

Tratto dagli archivi di Focus. Perché non ti abboni?

Carne sintetica: tutto quello che c’è da sapere

In questi giorni avete sentito dire di tutto sulla carne sintetica, dopo che il Consiglio dei Ministri ha approvato lo stop alla produzione e commercializzazione di alimenti e mangimi sintetici in Italia. Senza entrare nel merito delle polemiche politiche, proviamo a capire meglio come si ottiene la carne artificiale, quali sono i suoi possibili benefici, quali le pecche e gli elementi di rapporto con i consumatori. In attesa di vedere se e in che misura la carne in vitro, per ora approvata per il consumo soltanto a Singapore e negli USA, rientrerà davvero tra i cibi del futuro.

Carne sintetica: come si ottiene?

Al tema della transizione ecologica e di sistemi alimentari più sostenibili è dedicato il numero 366 di Focus con la guida Ecosapiens. Ogni mese su Focus trovi centinaia di curiosità, i temi della scienza, della tecnologia e dell’ambiente spiegati in modo chiaro ed esauriente. Abbonati a Focus.

La coltivazione di carne in vitro muove da un insieme di tecnologie sfruttate da anni nell’ingegneria tissutale, il ramo della medicina che si occupa di rigenerare e riparare i tessuti. Come spiega Hanna Tuomisto, Professore associato di Sistemi alimentari all’Università di Helsinki (Finlandia), «la produzione di carne coltivata in laboratorio inizia estraendo cellule staminali dai muscoli di animali adulti viventi o cellule staminali pluripotenti da embrioni animali». Un’operazione che si può tentare con qualunque specie ma che per ora è stata sperimentata con bovini, maiali, tacchini, polli, anatre e pesci.
Le staminali estratte sono trasferite in un bioreattore (cioè un dispositivo che riproduce le condizioni ottimali di temperatura, aerazione e flusso di nutrienti per le colture cellulari, replicando quelle naturalmente presenti nel corpo degli animali, ndr) dove vengono fatte proliferare fino a raggiungere la concentrazione desiderata e differenziare in cellule muscolari. Dopo la differenziazione le cellule iniziano a formare minuscole fibre dette miotubi, le unità base delle fibre muscolari, che continuano a crescere in tessuto muscolo scheletrico se si forniscono le giuste condizioni. La struttura del prodotto carne dipende dalla durata e dalle condizioni di questo processo produttivo».

Linfa e telaio. Per ottenere carne edibile, oltre a un ambiente adeguato servono due elementi di supporto: un siero che aiuti le cellule a moltiplicarsi e differenziarsi e una superficie – una sorta di impalcatura, scaffold in inglese – sulla quale far orientare la crescita delle cellule e dar loro una struttura tridimensionale. Il mezzo di coltura ideale deve fornire nutrienti, ormoni e fattori di crescita, cioè proteine cruciali per stimolare la crescita e la proliferazione cellulare. Quello che funziona meglio contiene siero fetale bovino, ricavato dal sangue raccolto dal feto di bovine gravide durante il processo di macellazione – una condizione evidentemente non accettabile per vegetariani e vegani.

«Idealmente il mezzo di coltura non dovrebbe contenere sostanze derivate da animali, non solo per ridurre i costi ma anche per non venir meno all’obiettivo di rimpiazzare i prodotti animali convenzionali», scrive Tuomisto, ed evitare la sofferenza animale. «Sono stati sviluppati altri mezzi di coltura che non contengano derivati animali, ma non sembrano adatti per tutti i tipo di colture cellulari e sono spesso meno efficienti in termini di crescita e sopravvivenza cellulare. Alternative allo studio includono cianobatteri, alghe, lieviti, funghi». Lo “stampo” su cui far moltiplicare le cellule può essere edibile (per esempio a base di amido o alginato, un prodotto ricavato dalle alghe) o venire rimosso una volta ottenuto il prodotto finale. Può funzionare come una spugna munita di pori attraverso i quali irrorare le cellule di tutti i nutrienti necessari.

Quanto costa la carne sintetica?

Il primo hamburger di carne sintetica mostrato in una conferenza stampa a Londra, nel 2013, sarebbe risultato indigesto ai più: produrlo era costato 330.000 sterline (circa 375.000 euro). In 10 anni i costi si sono molto ridimensionati diventando seppur proibitivi, almeno pronunciabili. A marzo 2021, un’analisi dell’ente no-profit Good Food Institute (GFI), che rappresenta l’industria delle proteine alternative, ha stabilito che superando una serie di ostacoli tecnici ed economici si potrebbe abbassare il prezzo di produzione della carne sintetica di 4mila volte in una manciata di anni, passando dai 10.000 dollari (9.200 euro) per poco meno di mezzo chilo attuale a 2,50 dollari (2,30 euro) per la stessa quantità nel 2030.

La carne sintetica è sicura per i consumatori?

Risponde Rachel Mazac, Ricercatrice dell’Università di Helsinki esperta di cibo sostenibile e proteine alternative: «Non posso dirlo con certezza, ma questi cibi devono passare per la Novel Food Regulation europea (la procedura per la richiesta di autorizzazione di alimenti “nuovi” rispetto a quelli tradizionalmente intesi) data la relativa novità della tecnologia. Pertanto devono dimostrare di essere sicuri tanto quanto le altre opzioni attualmente disponibili per i consumatori europei. In questa fase penso che non siano né più né meno sicuri rispetto alla carne ottenuta in modo convenzionale».
Benefici aggiuntivi. La tecnologia di coltivazione in vitro potrebbe anche, come si legge su questo documento (in inglese) dell’Agenzia europea per l’ambiente, «offrire modi per controllare la composizione della carne e renderla più salutare. Il contenuto di grasso potrebbe essere fissato ai livelli raccomandati e i grassi insalubri potrebbero essere sostituiti con i più salutari omega-3. Si potrebbero poi includere ingredienti aggiuntivi come le vitamine».

La carne artificiale «non sarebbe così dipendente dall’uso di antibiotici, perché crescerebbe i condizioni sterili a partire da animali sani. Adottare più rigide procedure di controllo durante il processo di produzione potrebbe inoltre favorire una diminuzione delle malattie zoonotiche legate alla produzione di cibo».

Pro e contro della carne sintetica

«Le colture di cellule avrebbero un impatto decisamente minore sul consumo di suolo e molto meno inquinamento di suolo diretto», spiega Mazer, anche se desta preoccupazione il possibile inquinamento derivante dallo smaltimento del siero animale usato per la produzione in vitro. «Ma coltivare cellule richiede nutrienti, e dunque campi da coltivare per estrarre queste sostanze».
Come scrive Tuomisto, «i benefici ambientali generali della produzione di carne coltivata dipendono anche da come verrebbero utilizzati i terreni da pascolo liberati dalla produzione di animali da carne. Per esempio, se i pascoli permanenti fossero convertiti in colture agricole intensive, l’impatto netto sui cambiamenti climatici sarebbe persino negativo, perché i pascoli permanenti catturano grandi quantità di carbonio nel suolo e la loro conversione rilascerebbe importanti quantità di carbonio in atmosfera. Un loro uso alternativo sarebbe la conversione in foreste o vegetazione nativa. In quei casi la conversione aumenterebbe la cattura di carbonio nel suolo e nella vegetazione e risulterebbe in benefici ambientali persino maggiori rispetto a quelli visibili dal semplice confronto tra i prodotti finali». Occorre ricordare che l’allevamento di animali da macello è responsabile, da solo, del 14,5% del totale di tutte le emissioni di gas a effetto serra di origine antropica, oltre a utilizzare circa il 20% delle terre emerse come pascolo e il 40% dei terreni coltivati per la produzione di mangimi.

E se per il clima fosse persino peggio?

Tuttavia, uno studio del 2019 che ha considerato il diverso comportamento, in atmosfera, di metano e anidride carbonica, i gas serra più comunemente associati alla produzione di carne, ha concluso che, in alcune circostanze, la produzione di carne sintetica, associata quasi esclusivamente a emissioni di CO2, potrebbe risultare ancora più pesante, in termini climatici, di quella di carne tradizionale, che produce accanto alla CO2 anche metano e protossido di azoto (derivanti dai processi digestivi e dalla decomposizione del letame animale). Anche se il metano ha un impatto climalterante immediato molto più elevato della CO2, esso si dissipa nel giro di 12 anni, mentre la CO2 si accumula e permane per millenni. Indubbi invece i benefici per gli animali: il processo ridurrebbe drasticamente la necessità di macellazione, perché basterebbe allevare pochi animali sani per fornire le cellule staminali necessarie.

Diverso il discorso del siero fetale bovino (vedi sopra).

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