L'arca della biodiversità: ecco i sapori perduti

Dalla pecora Brogna al pisello nero di L’Ago, i prodotti della terra e di allevamento che ormai non si trovano più o che rischiamo di perdere a causa di cambiamenti climatici, pratiche di agricoltura intensive e sfruttamento del suolo

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La foto del buco nero al centro della Via Lattea

L’ospite oscuro che si annida al centro della Via Lattea e che inseguiamo da quasi un secolo non ha più soltanto un nome decorato da un asterisco: ora il buco nero Sagittarius A* ha anche un volto, rivelato al mondo nella nuova immagine catturata dall’Event Horizon Telescope (EHT). L’immagine fornisce la prova visiva inconfutabile del fatto che l’oggetto è per davvero un buco nero e aggiunge indizi su come funzionano questi giganti che si trovano al centro della maggior parte delle galassie.

La rete di 8 radiotelescopi (nel frattempo diventati 11) situati in ogni angolo del Pianeta che solo tre anni fa aveva realizzato la prima immagine diretta del materiale attorno al buco nero al centro della galassia lontana M87 – in quella che fu definita la “foto del secolo” – ha raggiunto il suo obiettivo primario: catturare l’immagine del più piccolo ed elusivo buco nero al centro della Galassia, nascosto tra nubi di gas ionizzati e polveri che interferiscono con le rilevazioni dei radiotelescopi, dunque più difficile da osservare.

Giganti a confronto. Sagittarius A* che si trova a circa 27.000 anni luce dalla Terra ha una massa di 4,1 milioni di Soli concentrata in un corpo sorgente dal raggio di 60 milioni di km: più o meno la distanza media di Mercurio dal Sole, o la metà della distanza tra il Sole e la Terra.

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© Focus

Rispetto al buco nero ritratto nel 2019 il “nostro” buco nero è un granellino di ghiaia nel cortile di casa: M87*, con le sue con 6,5 miliardi di masse solari, appartiene invece alla categoria dei “pesi massimi” dei buchi neri.

Essendo molto più grande e ingordo (divora in continuazione la materia che lo circonda generando uno dei getti di materiale più violenti mai visti) è anche molto più facile da fotografare, nonostante si trovi a circa 53 milioni di anni luce. Ecco perché era finito nel mirino dell’EHT prima del nostro vicino spaziale.

Di contro Sagittarius A* è meno attivo di M87*, cioè inghiotte meno materia, e per di più – essendo più piccolo – il suo “pasto” avviene più rapidamente. Quindi è più difficile coglierlo sul fatto.

Il confronto delle dimensioni dei due buchi neri ripresi dall’Event Horizon Telescope (EHT): M87* e Sagittarius A* (Sgr A*), al centro della Via Lattea. L’immagine mostra la scala di Sgr A* rispetto sia a M87* che ad altri elementi del Sistema Solare come le orbite di Plutone e Mercurio. Viene visualizzato anche il diametro del Sole e la posizione attuale della sonda spaziale Voyager 1, la navicella spaziale più lontana dalla Terra. M87*, che si trova a 55 milioni di anni luce di distanza, è uno dei più grandi buchi neri conosciuti. Mentre Sgr A*, a 27 000 anni luce di distanza, ha una massa di circa quattro milioni di volte quella del Sole, M87* è più di 1000 volte più massiccio. A causa delle loro distanze relative dalla Terra, entrambi i buchi neri appaiono della stessa dimensione nel cielo.
© Collaborazione EHT (H/T: Lia Medeiros, xkcd )

Nonostante le differenze i due buchi neri appaiono straordinariamente simili. 

La prima foto del buco nero al centro della Via Lattea spiegata bene

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come leggere la foto. Insomma anche se Sagittarius A* è «mille volte più piccolo» di M87 è anche «mille volte più vicino», quindi «dovrebbe avere un aspetto molto simile a M87 nel cielo» aveva pronosticato nel 2019 a Inverse Geoffrey Bower, scienziato dell’EHT.

In effetti questa fotografia, così come quella di allora, mostra in realtà quel che vi è attorno al buco nero in prossimità dell’orizzonte degli eventi, un confine dal quale non si può più tornare indietro a causa dell’immensa forza di gravità del buco nero. Il buco nero in sé non è fotografabile perché nulla può uscire da esso – neppure qualunque forma di radiazione, luce compresa.

«Quello che vediamo nell’immagine è un disco oscuro circondato da una struttura ad anello che delinea il percorso della luce emessa dal materiale che va in orbita attorno al buco nero» spiega a Focus.it Ciriaco Goddi, docente all’Università di Cagliari, astrofisico dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e membro dell’Event Horizon Telescope «questo percorso viene distorto dal forte campo gravitazionale esercitato dal buco nero stesso. La parte scura che vediamo al centro è quella che chiamiamo ombra del buco nero: è esattamente la parte che ci eravamo prefissi di osservare perché segnala la presenza dell’orizzonte degli eventi, la frontiera di non ritorno che è la caratteristica che definisce un buco nero».

Rincorsa al buco nero. Ottenere una foto di Sgr A* è stato assai più complesso rispetto alla sfida con M87*, nonostante il primo si trovi nella nostra galassia. Poiché Sgr A* è situato a circa 27.000 anni luce da noi, occupa una porzione di cielo di 52 microarcosecondi: ha all’incirca le dimensioni di una ciambella sulla Luna vista dalla Terra.

I 300 scienziati coinvolti nel consorzio EHT hanno osservato Sgr A* per più notti nel 2017 raccogliendo dati da molte ore di osservazioni di fila – come quando si usa una fotocamera a lunga esposizione. È stato però necessario sviluppare nuovi strumenti molto sofisticati per tener conto del movimento di gas attorno al buco nero. Il gas che si trova nelle vicinanze dei buchi neri Sgr A* e M87* si muove alla medesima velocità (prossima a quella della luce), ma impiega settimane a orbitare attorno a M87*, che è molto più grande, mentre completa un’orbita attorno al più piccolo Sgr A* in pochi minuti.

Ciò significa che la brillantezza e il percorso del gas attorno a Sgr A* cambiavano molto rapidamente proprio mentre gli scienziati di EHT cercavano di osservarlo. Un po’ come cercare di fotografare un gatto che rincorre rapidamente la sua coda, o un bambino che corre. L’immagine di Sgr A* che vediamo è una media delle diverse immagini che il team di scienziati ha estratto.

Una nuova conferma per la teoria di Einstein. «Abbiamo due galassie completamente diverse e due buchi neri di masse molto diverse, eppure, vicino al loro confine, questi buchi neri sono incredibilmente simili» spiega Sera Markoff, co-direttrice del comitato scientifico di EHT e professoressa di astrofisica teorica all’Università di Amsterdam. «Questo ci dice che la Relatività Generale governa questi oggetti da vicino e che ogni ulteriore differenza che vediamo deve essere dovuta alle differenze del materiale che li circonda».

Questa simulazione è utile per mettere in evidenza la nostra posizione nella Galassia. Ci troviamo a circa 25mila anni luce dal centro, dove c’è Sagittarius A*.
© Nick Risinger/Nasa

L’EHT. L’immagine è insomma la prova schiacciante del fatto che quello al centro della Via Lattea è proprio un buco nero, un’ipotesi che ha decenni di anzianità e che trova finalmente conferma. Per ottenerla si è ricorsi, come per M87*, all’EHT o “telescopio per l’orizzonte degli eventi”, l’unico strumento esistente in grado di fotografare i buchi neri supermassicci.

Si tratta di un network di più radiotelescopi in cinque continenti collegati mediante la tecnica di Interferometria a Base Molto Ampia (VLBI) che consente di ottenere una risoluzione angolare in grado di osservare l’orizzonte degli eventi del buco nero e sincronizzare i dati provenienti dalle singole stazioni riceventi così da ottenere un’unica fotografia di grande dettaglio.

Così facendo è come se si lavorasse con un radiotelescopio grande come tutta la Terra in grado di osservare una ciambella sulla Luna. Anche in questo caso, così come per M87, l’immagine è importante perché essa è in grado di fornire una misura molto precisa della massa, del diametro e della rotazione del buco nero con una precisione mai ottenuta prima.

Fare rete. Per provare a fotografare i buchi neri si utilizzano radiotelescopi e non telescopi ottici, perché i primi riescono a catturare le radiazioni nonostante la presenza di polveri che circondano il buco nero che impediscono la fuoriuscita della luce visibile o di altre radiazioni. Le prime osservazioni dal centro della galassia furono compiute agli inizi degli Anni Trenta del secolo scorso dal padre della radioastronomia Karl Janky, ma i primi veri radiotelescopi furono costruiti soltanto dopo la Seconda guerra mondiale, sfruttando le tecniche radar sviluppate durante il conflitto.

L’idea di collegare telescopi lontani e distribuiti in varie parti del mondo, come per formare un unico grande telescopio con un’antenna del diametro virtuale di migliaia di chilometri, risale però agli anni ’70. Nel 1974, per la prima volta Bruce Balick e Robert Brown collegarono tra loro quattro radiotelescopi nel West Virginia (Usa), e riuscirono a osservare Sagittarius A* con una risoluzione inferiore a un secondo d’arco (come guardare un cd da 40 km di distanza).

Il passo successivo fu separare i radiotelescopi non più di decine ma di centinaia o migliaia di km (la a Very-Long Baseline Interferometry, Vlbi). Nel 1995 grazie a due telescopi posti a 1000 km di distanza, uno nelle Alpi francesi e uno in Sierra Nevada, si arrivò a stimare per la prima volta le dimensioni di Sagittarius A*. Misurazioni più accurate avvennero nel 2007 con il lavoro sincronizzato di 3 antenne americane (Hawaii, California, Arizona). Il resto è la storia più recente di cui abbiamo scritto.

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La storia delle immagini dei buchi neri

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Ha collaborato Luigi Bignami

Se le persone non conoscono il significato della parola ‘biodiversità’

“La prova è inequivocabile: la biodiversità, importante di per sé ed essenziale per le generazioni attuali e future, viene distrutta dalle attività umane a un ritmo senza precedenti nella storia”. Con queste parole Sir Robert Watson, presidente dell’IPBES, la piattaforma intergovernativa dell’ONU sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, commentava nel 2019 i risultati appena pubblicati nel Global Assessment, che riunisce i contributi di oltre 1.000 scienziati da tutto il mondo.

Per quanto autorevole, l’allarme lanciato dall’IPBES non era che l’ultimo dei tanti che si erano susseguiti a partire dal 1986, l’anno di “nascita” della parola “biodiversità”, pronunciata per la prima volta a Washington in occasione di un convegno organizzato dalla National Accademy of Sciences e dallo Smithsonian Institute. A raccontarcelo è il grande naturalista americano E.O. Wilson, scomparso nel 2021, che quella parola tenne a battesimo, proprio raccogliendo gli interventi del convegno in un volume uscito nel 1988 e intitolato BioDiversity, divenuto negli anni un vero best seller.

Ma cos’è la biodiversità? Bella domanda. Se si cerca una definizione si rischia di perdersi. È un concetto multiforme che non si presta ad essere formulato in modo univoco, come dimostrano le numerose definizioni utilizzate dallo stesso Wilson nel corso degli anni. Sulla sostanza però gli scienziati concordano: la biodiversità è la varietà della vita sulla Terra, costituita dalle piante, dagli animali, dai microrganismi, dalle informazioni genetiche che contengono, dagli ecosistemi che formano e dalle relazioni che tra tutti questi elementi intercorrono.

Il termine “biodiversità” dovrà aspettare la storica prima conferenza mondiale dell’ONU sull’ambiente, l’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, per acquisire una risonanza mondiale. A Rio 150 stati firmano la Convenzione sulla diversità biologica (oggi sono 196) e riconoscono la biodiversità come bene globale di enorme valore per le generazioni presenti e future. Da quel momento il termine “biodiversità”, nonostante nel testo del trattato venga utilizzato solo nella sua forma estesa (diversità biologica), acquisisce anche una rilevanza politica e istituzionale che, nel nostro Paese, arriva all’apice nel 2022, con il suo ingresso nella Carta costituzionale. Con la modifica dell’articolo 9, la tutela della biodiversità (“anche nell’interesse delle future generazioni”) va ad aggiungersi a quella di “ambiente” ed “ecosistemi”, introdotta con la Riforma del Titolo V nel 2001, tra i principi fondamentali della Costituzione. 

In quasi 40 anni di vita la parola “biodiversità” è diventata di uso comune in tutto il mondo, non solo in ambito scientifico. In alcuni casi ci è scappata un po’ la mano e tutto è diventato biodiverso: biodiversità alimentare, biodiversità umana, biodiversità culturale, perfino biodiversità linguistica. La biodiversità è entrata nelle nostre vite, nel nostro lessico prendendo il posto, sempre più spesso, di quella che una volta chiamavamo “natura”. Eppure, moltissime persone non sanno nemmeno cosa significhi.

I dati pubblicati nel 2019 dall’Eurobarometro, lo strumento attraverso il quale la Commissione europea indaga l’opinione dei cittadini dell’UE, sono preoccupanti: la maggioranza degli europei non ha mai sentito la parola “biodiversità” (41%) o non ne conosce il significato (30%). In Italia le cose vanno anche peggio perché la percentuale complessiva sale al 76%. Ma la carenza conoscitiva sembra essere un problema globale, come conferma uno studio australiano del 2019 coordinato dall’ecologo Michael A. Weston della Deakin University di Melbourne, nel quale circa il 50% degli intervistati ha risposto alla domanda “cosa significa per te il termine ‘biodiversità?” ammettendo di non conoscere il significato del termine, oppure fornendo una risposta che aveva poco a che fare con la definizione di biodiversità; un altro 18% ha invece risposto in modo vago, citando piante o animali o descrivendo concetti come armonia ed equilibrio.

Se la maggior parte del grande pubblico non conosce il significato del termine biodiversità, una fetta non trascurabile del mondo scientifico sembra farne un uso discutibile. Uno studio da poco pubblicato sulla rivista Current Biology, infatti, ha rilevato la tendenza ad un utilizzo inappropriato del termine “biodiversità” nella letteratura scientifica. Con una logica simile al clickbaiting, oltre un quinto degli articoli scientifici analizzati, pur contenendo la parola “biodiversità” nel titolo, non la tratta o la tratta in modo molto parziale nel testo; così facendo si sfrutta l’appeal del termine per guadagnare visibilità e citazioni. Un utilizzo improprio che, a detta degli stessi autori, può rivelarsi rischioso in quanto catalizza l’attenzione sulle cose più vendibili e introduce una distorsione che può influenzare in modo errato le politiche di conservazione della biodiversità e l’utilizzo delle esigue risorse disponibili.

Se il termine “biodiversità” stenta ad affermarsi tra il grande pubblico lo si deve anche al fatto che il suo significato non è affatto facile da comprendere. Se ne è accorta la testata inglese The Guardian che nel 2019 l’ha inserito nella sua Guida di stile tra i termini che sarebbe meglio evitare nel linguaggio corrente perché ritenuto poco comprensibile per il grande pubblico. È un concetto dinamico, complesso, che richiama scale spaziali e dimensionali diverse e richiede uno sforzo di astrazione per mettere in relazione i diversi elementi che lo compongono. E non si scappa: la complessità richiede riflessione, la riflessione richiede tempo e il tempo non c’è in questa società sempre meno abituata al pensiero profondo, tiranneggiata dalla semplificazione e dalla banalizzazione dei contenuti per renderli adatti alla fruizione veloce.

E anche gli sforzi di chi in questi anni si è adoperato per divulgare il significato e il valore della biodiversità, servendosi di una terminologia semplice ma corretta, sfruttando la potenza della narrazione e cercando di stimolare perfino l’utilitarismo dell’essere umano spiegando quello che “la biodiversità fa per noi”, evidentemente non hanno dato i risultati sperati. Almeno fino ad ora e sicuramente con le persone adulte.

Come si fa a comprendere l’urgenza degli allarmi lanciati dalla comunità scientifica se non si conosce il significato e il valore della biodiversità? Semplice: non si può. Il fatto che così poche persone si rendano conto di ciò che si sta perdendo riduce la speranza di riuscire ad invertire la tendenza, tanto da essere considerato da alcuni uno dei fattori che contribuiscono alla crisi di estinzione della biodiversità. Non è un caso che il testo dello storico accordo raggiunto alla recente COP15 di Montreal si chiuda con un’intera sezione dedicata alla necessità di “migliorare la comunicazione, l’educazione e la consapevolezza sulla biodiversità” come premessa irrinunciabile per ottenere il cambiamento dei comportamenti, promuovere stili di vita sostenibili e arrestare la perdita di biodiversità.  

Vietato alzare bandiera bianca, quindi. Lo aveva capito anche E.O. Wilson che nel suo The Diversity of Life del 1992 a tal riguardo citava le parole pronunciate nel 1968 da Baba Dioum, ingegnere forestale senegalese, di fronte all’assemblea generale dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura: “alla lunga, conserveremo solo ciò che amiamo, ameremo solo ciò che comprendiamo e comprenderemo solo ciò che ci insegnano”.

*Andrea Monaco è uno zoologo ricercatore dell’Ispra

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